L’Avalokitesvara, il bodhisattva della compassione, è di arenaria, alto circa 123 cm, Sarnath V secolo E.V. Snocciolo dati di questo genere e Stella Kramrisch continua ad annuire, non perché abbia 87 anni, ma perché questa roba andrebbe stampata in piccolo. È il 1983. Due gatti abissini gironzolano per la sua casa di Filadelfia, ma io non oso ammettere allergie ai felini o disgusto per il lattiginoso masala chai al cardamomo che mi offre. L’inglese di Stella ha perso la pesantezza germanica di un tempo, ma non la precisione che la stessa Stella ha appreso nel primo liceo femminile di Vienna, sulla Rahlgasse. Ha un portamento perfetto e il respiro controllato. «Prana» pronuncia come in stato di trance, accarezzando un fianco della statua e la curva del suo addome. Il prana, la forza vitale, Stella Kramrisch lo ha conosciuto presto. A sedici anni vide i Balletti Russi, visitò la mostra itinerante futurista a Vienna, fu ammessa nella biblioteca asiatica di Josef Strzygowski all’università e, dopo aver letto la traduzione di Leopold von Schroeder della Bhagavadgita, fece dell’esortazione di Krsna ad Arjuna il motto che da allora la guidò nella vita: «Preoccupati solo dell’azione, mai dei suoi effetti». A ventitré anni, nello stesso anno in cui conseguì il dottorato in arte buddhista antica, si esibì in costume orientaleggiante alla Konzerthaussaal in un programma intitolato Stella Kramrisch: una serata di danza all’alba.
Che Nijinsky, curvandosi a mo’ di viticcio su Tamara Karsavina in Le spectre de la rose, le avesse evocato l’immagine di una yaksi appesa a un torana di Sanchi o il Vajrapani dipinto della grotta n. 1 ad Ajanta? Stella aveva visto entrambi in alcune fotografie che Victor Goloubew aveva dato a Strzygowski (Goloubew era andato in India nel 1910 per riprendersi dalla fuga di sua moglie, finita tra le braccia di Gabriele D’Annunzio). Strzygowski sosteneva la tesi che l’arte paleocristiana affondasse le proprie radici nel Vicino Oriente, ma Stella manifestò una più stretta affinità intellettuale con Max Dvorák, rivale di Strzygowski, che all’epoca insegnava il manierismo italiano come espressione di una crisi spirituale.
La fine della guerra per lei fu segnata più dalla morte di Egon Schiele nella pandemia di influenza che dal crollo della duplice monarchia. Era cresciuta nella Vienna della psicoanalisi e dello Jugendstil; ma la sua città era anche quella di un romanzo di Joseph Roth popolato di scaltri immigrati giunti dai margini dell’impero, ebrei galiziani e moravi come suo padre. Con la pessima scusa che l’arte indiana era arte britannica, Strzygowski la portò a Oxford con uno scambio culturale post-bellico e lei asserì poi di non sapere che alla sua conferenza inaugurale era presente fra il pubblico Rabindranath Tagore, poeta e inconfondibile figura di saggio. La sua insincerità le valse un invito a insegnare a Shantiniketan, la scuola rurale progressista a 150 chilometri da Calcutta che Tagore stava ampliando grazie ai soldi del Nobel per farne un modello da opporre al sistema scolastico britannico. La nuova sezione fu chiamata Visva-Bharati, «presenza universale in un singolo luogo». A Londra, mentre aspettava che le rilasciassero il visto, Stella fece amicizia con l’artista William Rothenstein, che prese in giro Tagore tacciandolo di essersi innamorato di una ragazza con gli occhi a mandorla.
Arrivata a Mumbai, prima ancora di trovare un hotel Stella prese un traghetto per l’isola di Elephanta, dove la scultura rupestre della danza cosmica della distruzione di Siva la iniziò allo studio dell’arte indù. Non si trattava di un mero interesse intellettuale. A Calcutta, Stella si affidò a un monaco tantrico scivaita che, presso il tempio di Kalighat, la fece distendere su un cadavere prima che venisse immolato. Stella discese la pira mentre le fiamme salivano al cielo e poi assistette a tutta la cremazione. Più tardi, nell’intimità della propria abitazione nell’orto botanico dell’Università di Calcutta dove, nel 1924, fu la prima europea a ottenere una docenza, si strofinò le ceneri sul corpo nudo. Una storia inventata? Probabilmente no; allo studio dell’arte indiana Stella legò con passione l’approfondimento delle pratiche spirituali. Un’altra storia, quella del Maharaja di Jhalawar che non la volle a una battuta di caccia a causa dell’empatia che Stella aveva per le tigri, è un leit motif della letteratura indiana che casualmente si incastra a perfezione nel mito Kramrisch. Stella non provava simpatia per il Raj e non avrebbe mai partecipato a una caccia; in giardino teneva una iena domestica di nome Hirshi.
Del suo primo progetto in India non fece parola, forse perché aveva un orientamento europeo; ma è stato comunque il tema di una mostra allestita nel 2013 a Dessau. Nel 1922 Stella organizzò una mostra sulla Bauhaus chiedendo a Johannes Itten di mandare opere di grandi artisti, tra cui Klee e Feininger, che espose accanto a dipinti di contemporanei indiani come Nandalal Bose. Una foto ritrae la minuscola curatrice con un vestito che sarebbe potuto uscire dalle mani di Anni Albers.
L’impegno di Tagore a favore delle tradizioni dell’India rurale – analogo a quello del movimento Mingei di Soetsu in Giappone – le ispirò una devozione per l’artigianato indiano che l’accompagnò tutta la vita. Il risultato, la mostra Unknown India: Ritual Art in Tribe and Village, inaugurata nel 1969, viene riconosciuto come il suo contributo più innovativo nei confronti dell’arte indiana. Può darsi che questa sua inclinazione avesse ricevuto impulso dall’arte popolare morava; fatto sta che un suo contemporaneo di vedute simili, l’austriaco René d’Harnoncourt nominato poi direttore del MoMA, fu incaricato di ridare vigore all’artigianato dei nativi americani negli Stati Uniti durante il New Deal rooseveltiano dopo aver sviluppato un interesse per le tradizioni artigiane del Messico.
Perfezionando la sua conoscenza del sanscrito, Kramrisch tradusse il Citrasutra, un testo del VII secolo sulla pittura facente parte del Visnudharmottara Purana, in una frase del quale trovò conferma della sua intuizione che tutta l’arte indiana si fondava sul movimento fisico: «È molto difficile capire le regole del dipingere senza conoscere la danza». Lei lo sapeva per istinto. Lei stessa danzava, così come danzava Tagore, e inoltre la danza era compresa nel piano di studi della Visva-Bharati. Il suo studio del tempio induista esaminava il modo in cui i seguaci si muovevano nello spazio e il principio vedico della sua disposizione basata sul diagramma sacro, il Vastu-Purusa Mandala, fatto a somiglianza del corpo legato di un demone gigante. Passando alcune estati nella località himalayana di Binsar, Stella analizzò la geometria della progettazione templare con Fritz Lévi, un matematico che aveva lasciato la Berlino nazista ed era diventato il secondo docente occidentale presso l’Università di Calcutta.
Ascoltando oggi la spiegazione delle guide turistiche sul concetto del manifesto e dell’immanifesto nella danza di Siva a Elephanta o a Ellora, la voce è quella di Stella che parla la lingua della sua formazione viennese, con il tipico penchant di questa per binomi del tipo l’idealismo e il naturalismo di Dvorák. Non stupisce che E.M. Forster, autore di Passaggio in India, abbia scritto di Art of India through the Ages (1954): «Devo talmente tanto alla professoressa Kramrisch che ho difficoltà a recensire il suo libro in modo imparziale». Forster individuò il centro dei suoi interessi nel significato intimo degli oggetti artistici e nel loro rapporto con l’universo e può darsi che avesse in mente la mostra fotografica che Stella aveva allestito per Fritz Saxl al Warburg durante il Blitz. Herbert Read scrisse che quella mostra doveva ricordare ai britannici la «vergognosa trascuratezza» delle responsabilità culturali che avevano dimostrato in passato.
Dopo la morte del marito, economista ungherese ucciso in Pakistan nel 1950, Stella approdò negli Stati Uniti e divenne curatrice dell’arte indiana presso il Philadelphia Museum of Art. Pranzavo spesso con lei nella mensa del museo, che dal punto di vista architettonico era una via di mezzo tra la Bauhaus e una scuola elementare americana. Alla fine mi chiedeva sempre di andarle a prendere un gelato, che poi mangiava con tutto il gusto di una bambina al Prater.
traduzione di Claudia Valeria Letizia