Sono un superstite, uno dei pochi rimasti, ma sono contento di raccontare una pagina nobile della storia del nostro paese». A 82 anni Giorgio Benvenuto in questi giorni passa da un intervento Skype alle interviste televisive con la lucidità di un ragazzo che parla con passione di una battaglia vinta.

Benvenuto, lei divenne segretario generale della Uilm nel 1969 dopo una lunga gavetta sindacale. Furono dodici mesi indimenticabili.

Sono entrato nel sindacato nel 1955 e mi laureai in giurisprudenza alla Sapienza di Roma nel 1960 con una tesi sulle Commissioni interne nelle fabbriche. Se l’intuizione di una legge organica per i lavoratori si può far risalire addirittura a Turati con “Rifare l’Italia” del 1919 e poi alla Fiom di Buozzi, martire del fascismo, prima di Di Vittorio che lo disegnò organicamente negli anni ’50, in realtà la sua approvazione è arrivata tardi rispetto agli altri paesi europei. Lo spazio politico si era aperto nel 1963 con la sollevazione contro il governo Tambroni e l’avvio del centrosinistra con Moro. Il boom economico fu fatto sulla pelle dei lavoratori e le fabbriche in quegli anni erano turbinose. Ricordo che noi ci entravamo solo scortati dai lavoratori con i capi del personale che ci diffidavano dall’entrare e poi ci denunciavano perché al tempo le fabbriche erano «proprietà privata». Con lo Statuto arrivò l’amnistia per 14mila denunce, io ne avrò avute decine e decine. Ma tutto fu figlio della nostra lotta dell’autunno caldo.

Lei da socialista a chi dà la palma del vero autore dello Statuto: Gino Giugni o Giacomo Brodolini?

Tra i due, capisco spiazzandola, le direi Donat Cattin. Perché è vero che Brodolini presentò la proposta di legge nel 1969, ma poi purtroppo morì e fu sostituito come ministro del Lavoro dal democristiano Donat Cattin che ebbe l’intelligenza di confermare Gino Giugni come braccio destro al ministero, dando continuità al progetto. Fu Giugni a trovare le soluzioni pratiche che fecero accelerare l’approvazione dello Statuto. E in più fece anticipare le norme previste nella trattativa nel contratto dei metalmeccanici. Diritto di assemblea, deleghe, diritti dei sindacalisti: tutte quelle clausole contrattuali finirono poi nella legge. Una legge non calata dall’alto ma nata dal nostro impegno unitario.

Il Pci però si astenne:considerava lo Statuto insufficiente. Ci furono pressioni in quelle settimane?

Nessuna pressione sul sindacato. Il Pci sosteneva che si sarebbe potuto fare di più ed era contrario al fatto che i diritti previsti dallo Statuto si esprimevano in diritti in capo al sindacato e non ai lavoratori. Fu lo stesso Donat Cattin a difendere anche l’articolo 28: il comportamento antisindacale con decisione immediata del giudice.

A livello sindacale però le cose non furono così semplici: voi metalmeccanici eravate in una situazione complicata con le confederazioni.
Sì, la Cisl storicamente e ancora oggi è sempre stata contraria a legiferare su questioni contrattuali. In più nel 1969 sia noi come Uilm che la Fim Cisl uscimmo sconfitti – seppur di pochi voti – nei congressi confederali di Uil e Cisl sulla questione dell’unità dei metalmeccanici che poi sfociò nella Flm. Fu molto dura portare avanti la trattativa del contratto dei metalmeccanici da soli ma riuscimmo ad imporre che le confederazioni ne rimanessero fuori. Ricordo che alla grande manifestazione di Roma decidemmo di non far parlare i segretari generali: con Storti (segretario Cisl, ndr) e Vanni (segretario Uil, ndr) non fu difficile, ma Bruno Trentin disse: «E chi glielo va a dire a Novella? (l’allora segretario generale della Cgil, ndr)». Pierre Carniti gli rispose: «Gielo vai a dire tu». Bruno era interdetto, ma Pierre lo convinse: «Ce la fai, ce la fai». L’altro momento terribile fu il 19 novembre con la manifestazione per la casa e l’uccisione del poliziotto Annarumma. Saragat in qualche modo addossò la colpa a noi sindacati e per tornare in piazza il ministro democristiano Restivo ci chiese di prendere la responsabilità dell’ordine pubblico: lo facemmo e andò tutto bene, nessun incidente. La conquista dello Statuto fu possibile solo perché in quell’anno ci fu uno spirito straordinario di partecipazione. La nostra unità, anche umana, era fortissima. Quella legge la scrissero i lavoratori con la loro lotta.

Benvenuto, lo Statuto compie oggi cinquanta anni. Mantenerne lo spirito è sacrosanto, il mondo del lavoro però è cambiato totalmente. Lei come lo aggiornerebbe?

Certo, lo Statuto è tarato sull’industrializzazione e il lavoro in fabbrica. Oggi invece il lavoro è frammentato e precario. L’Italia fino agli anni novanta si è salvata svalutando la Lira; da lì in poi, non potendo svalutare l’Euro, si è svalutato il lavoro. Dare nuovi diritti nell’epoca della globalizzazione e della finanziarizzazione è ancora più difficile. Lo sviluppo tecnologico, l’intelligenza artificiale hanno creato disparità e diseguaglianze spaventose nel campo della conoscenza. Questo però paradossalmente ci riavvicina alla nostra battaglia: noi chiedemmo le 150 ore per gli operai perché ritenevamo centrale che gli operai capissero come andava il mondo; oggi bisogna reimpadronirsi della conoscenza. La pandemia è un dramma e allo stesso tempo un’occasione formidabile per ribaltare il mondo e limitare il potere della finanza, rimettendo al centro la persona. Serve una grande attività progettuale da parte del sindacato. Non è facile ma nemmeno impossibile: un rilancio del suo ruolo arricchirebbe la democrazia.