La prima proposta di uno «statuto dei diritti dei lavoratori» la fece Giuseppe Di Vittorio al III congresso della Cgil a Napoli nel 1952, proposta figlia del Piano del Lavoro lanciato nel II congresso del 1949 a Genova. Di Vittorio sapeva benissimo che era necessario tenere assieme la crescita economica e le garanzie per chi la doveva attuare.

Passarono 18 anni prima che l’intuizione prendesse corpo, diventasse realtà e venisse votato dal parlamento. Un arco di tempo lungo durante il quale l’economia italiana crebbe con grande rapidità e tante contraddizioni in una situazione in cui lo stato era proprietario di molte produzioni. I cosiddetti “anni del boom” furono accompagna da grandi conflitti sociali perché le imprese non riconobbero salari e diritti individuali e collettivi all’altezza degli immani sforzi dei lavoratori.

Con l’avvento del centrosinistra e sotto la pressione del Pci molte leggi che riguardano il lavoro vengono discusse e approvate: la riforma delle pensioni, sicurezza nei luoghi di lavoro, diritti per le donne che lavorano.

Io ho un ricordo molto preciso di quegli anni perché ho cominciato a lavorare proprio nel 1969. L’anno precedente alla Pirelli Bicocca era esplosa una lotta molto dura contro il cottimo, continuata l’anno successivo con la protesta degli impiegati che rivendicavano condizioni in linea con i miglioramenti spuntati dagli operai nel quadro che stava tracciando lo Statuto. Io cominciai a lavorare il 9 giugno e il 10 feci il primo sciopero.

Nel 1970, contestualmente con la nascita dello Statuto dei lavoratori, nacquero i Consigli di fabbrica. Sono una delle prime derivazioni dello Statuto, ne sono complementari, perché i consigli sono il soggetto che deve controllare l’applicazione delle regole dello Statuto in fabbrica.
Quelli sono anni in cui ci sono cambiamenti importanti nella rappresentanza: anche Confindustria cambia linea: il famoso «piano Pirelli» contiene proposte che guardano alla collettività, cosa impensabile soltanto fino a poco tempo prima.

Questo piccolo excursus storico e personale dimostra come lo Statuto fu quindi il frutto diretto degli anni di conflitto che fecero maturare una nuova dimensione politica e di protagonismo dei lavoratori.

In questi cinquanta anni lo Statuto dei lavoratori ha funzionato in tutte le sue impostazioni: rispetto alla centralità della dignità dei lavoratori e all’affrontare le crisi economiche del decennio successivo – prodotte da fenomeni sostanzialmente internazionali come testimonia la mancata fusione fra Pirelli e Dunlop – regolando e orientando i comportamenti delle imprese nei confronti dei lavoratori. Lo Statuto permette che il conflitto fra impresa e lavoratori si mantenga sul piano fisiologico permettendo ad entrambi di muoversi sulla stessa direzione. Negli anni successivi lo Statuto si porta dietro nuove legislazioni positive su diritti, rappresentanza e ambiente, una legislazione che allo stesso tempo lo arricchisce.

Agli inizi degli anni Novanta una crisi terribile viene superata grazie agli accordi del 1992 e 1993 con Carlo Azeglio Ciampi e la concertazione – la legge di bilancio veniva prima discussa con le parti sociali e solo dopo portata in parlamento – che consente al paese di superarla e ripartire: il contratto dei metalmeccanici fu approvato senza un’ora di sciopero grazie alla contrattazione di anticipo.

All’inizio degli anni duemila lo Statuto venne lesionato dalla destra e dall’allora presidente Berlusconi – bloccato dalla ferma risposta del sindacato a difesa dell’articolo 18, norma che aveva un valore simbolico superiore. Ma sarà poi la sinistra di governo con la Terza Via di Blair tramite la risposta sbagliata alla globalizzazione – solo rigore invece dell’importanza della conoscenza proposta da Jacques Delors – a portare poi al suo depotenziamento avvenuto con il Jobs act di Matteo Renzi.

L’idea di fondo era che i diritti dei lavoratori si potevano trascurare perché tanto c’è un’area di nuovi lavori e mobilità tra paesi che li rendevano inapplicabili e superati. La cancellazione dei diritti dei lavoratori è stata presentata come innovazione contro la rigidità del passato, rigidità che le imprese superano delocalizzando verso paesi dove possono licenziare liberamente e pagare salari inferiori.

Ora lo sappiamo: il ridimensionamento dello Statuto dei lavoratori ha provocato solo danni e nessun vantaggio per le imprese. Oggi, davanti ad una situazione che definire drammatica è eufemistico per la pandemia globale, dobbiamo certo limitare i danni economici ma si staglia già il grande tema di un nuovo Statuto del nuovo lavoro.

Per uscire dalla crisi attuale ci sarà la necessità di investire somme statali molto ingenti e di organizzare il lavoro secondo regole diverse, non solo nella fase transitoria. Servirà ridefinire le modalità della sanità, dei servizi pubblici essenziali, bisognerà rifondare la contrattazione.

La politica economica va definita con progetti in cui lo stato torni protagonista, anche come proprietario, non necessariamente per sempre, ma nella fase della ripresa senza alcun dubbio. Andranno modificate le modalità di lavoro: orari, turni, lavoro da casa.

Per fare tutto questo servono due cose: serve un confronto triangolare governo, imprese, sindacati dando un ruolo preciso a chi rappresenta il lavoro e serve una legge sulla rappresentanza: non basta più l’erga omnes, bisogna sapere chi rappresenta chi negozia. Le piattaforme prima e gli accordi poi vanno sempre validati dal voto dei lavoratori: nel futuro complicatissimo che ci aspetta non possiamo avere una rappresentanza incerta.

In questo senso lo Statuto dei lavoratori in questo momento va rilanciato. Certo, si può superare – come propone la Cgil con la proposta di nuovo statuto con la Carta dei diritti universali del lavoro – la differenziazione fra lavoratori dipendenti e autonomi, ma la vera emergenza è il finto lavoro autonomo, perché milioni di giovani si trovano in questa situazione ed è difficile rappresentarli.