Mettere a profitto l’umore. Dopo le scelte, le preferenze, le foto, le opinioni che si esprimono con un click e che da anni sono diventate le miniere delle Big Tech, sembra sia arrivato il momento di estrarre ricchezza anche dal “come ci si sente”. Ricchezza e potere di controllo sugli stati d’animo.

Domanda ultra scontata a questo punto: fantascienza? Forse, per ora però c’è un brevetto. Richiesto due anni fa e concesso dall’apposito ufficio statunitense all’inizio di quest’anno. Un brevetto assegnato a Spotify, il gigante svedese che ormai detta legge nello streaming musicale.

Il progetto – che probabilmente doveva restare un po’ sottotraccia ma che è stato scoperto e reso pubblico dalla rivista Music Business Worldwide –  ha un titolo ambizioso e un po’ criptico: “Identificazione degli attributi di gusto da un segnale audio”. Tradotto, senza troppi giri di parole:  l’obiettivo è entrare nella testa degli utenti, “cogliere le loro variabili comportamentali”. Carpirne l’umore, insomma.

Già, ma come? L’idea è questa: Spotify dovrebbe realizzare un sistema grazie al quale capta la voce di chi sta ascoltando la musica ed “i suoni ambientali” di ciò che lo circonda. Cosa che non dovrebbe essere impossibile visto che, sempre due anni fa, Spotify s’è fatta approvare un altro brevetto che consentirebbe di registrare l’utente mentre  fa karaoke.

Nella lunga introduzione alla richiesta dell’ultima “patent”, Spotify mette quasi le mani avanti: “E’ normale per un’applicazione di streaming multimediale includere funzionalità che forniscono consigli multimediali personalizzati a un utente”.

Cogliere l’umore di una persona in quel momento, insomma, dovrebbe servire al colosso della musica on air per fornire suggerimenti da aggiungere alle playlist. Anche se – chi ha proposto il brevetto – ha spiegato che comunque quegli eventuali “dati umorali” andrebbero sommati a quelli già conosciuti: cronologia degli ascolti, le librerie musicali, i dati degli amici ai quali si è consigliato l’ascolto di un brano, eccetera, eccetera.

Numeri, giganteschi megadati ai quali mancava però l’analisi sullo stato d’animo. Così Spotify ruberà la voce, un commento alla canzone, magari un’imprecazione od il rumore del traffico. Per capire se sei in strada o in un parco, se sei felice con una melodia mainstream o arrabbiato con un hip hop, tanto per restare dentro gli stereotipi. Capterà gli audio e li farà analizzare con un modello stocastico – esattamente, per gli appassionati ed i competenti, attraverso l’architettura del modello Markov – che, appunto, dovrebbe essere in grado di disegnare un identikit utilizzando elementi che variano nel tempo.

Sembra tutto molto complicato. E probabilmente lo sarà, la sua traduzione in pratica, l’applicazione non sarà così immediata. Spotify però non vede altre strade: tempo fa, la società disse che c’era bisogno di inventarsi altri metodi per cogliere i gusti degli utenti. “Perché le persone si stancano di rispondere ai questionari”.

Con questa premessa, il gruppo ha messo al lavoro una enorme equipe di studiosi, che progettano sull’intelligenza artificiale ma ha anche allestito una squadra col compito di presentare il tutto al pubblico. Tant’è che poco tempo fa, la stessa Spotify ha reso pubblico uno studio sul “legame tra i tratti della personalità e il comportamento di ascolto della musica”. Ricerca che – ovviamente – aveva la solita premessa, letta migliaia di volte: “La storia digitale di un utente è straordinariamente personale e sensibile e dovrebbe essere trattata con un’adeguata considerazione dei possibili usi impropri”.

Non c’è da aver paura del nuovo brevetto, dunque, assicura la compagnia. Per chi invece avesse delle remore, per chi continuasse a non aver voglia di essere tracciato fin nel cervello, non resta che bluffare: e magari urlare commenti opposti durante l’ascolto dello stesso brano. O cambiare giudizio chiacchierando con amici diversi. Oppure, più prosaicamente, ascoltare la musica sui supporti giusti.