Annunciata lo scorso 11 maggio, la nuova normativa di Spotify sull’«hate content» – i contenuti che incitano all’odio – e l’«hate conduct» – i comportamenti più o meno criminali degli artisti – è già stata fatta saltare dalla piattaforma streaming musicale. Lo ha annunciato ieri la stessa compagnia con un comunicato: «Anche se siamo convinti della bontà delle nostre intenzioni, il linguaggio utilizzato era troppo vago, abbiamo dato luogo a confusione e preoccupazione, e non abbiamo passato abbastanza tempo a consultare il nostro team e i nostri partner prima di rendere pubbliche le nostre nuove linee guida».

Spotify si era infatti impegnata a rimuovere tutti quei contenuti che «promuovono espressamente, sostengono o incitano l’odio o la violenza contro un gruppo o un individuo sulla base di razza, religione, genere, nazionalità, orientamento sessuale, disabilità…». Contemporaneamente all’introduzione del nuovo regolamento, due artisti in particolare hanno subito il ban dalla piattaforma: il cantante R Kelly – accusato di abusi sessuali – e il rapper XXXTentacion, che è in attesa di processo per l’accusa di aver aggredito e malmenato una donna incinta.

La decisione di escludere i due musicisti dalla piattaforma ha però scatenato una polemica molto accesa sulla discrezionalità della scelta – dove tracciare il confine di un comportamento ritenuto inaccettabile? La stessa Spotify d’altronde aveva sottolineato che «gli standard culturali e le sensibilità individuali variano ampiamente». Ma soprattutto, il dibattito si era concentrato sull’opportunità di censurare i prodotti musicali sulla base del comportamento dei loro autori. Il passo indietro infatti è arrivato dopo meno di un mese: «Abbiamo sviluppato male quest’idea, avremmo potuto fare un lavoro molto migliore», ha ammesso il Ceo dell’azienda Daniel Ek. Mantenendo l’impegno ad agire contro chi inneggia all’odio e alla discriminazione.