Da Napoli, su un bastimento marsigliese che faceva vela diretto a Messina, Lazzaro Spallanzani (1729-1799) salpa alla volta della Sicilia, inteso a svolgere studi fisici e geologici con special riguardo all’Etna ed alle vulcaniche Isole Eolie. Era il 24 di agosto dell’anno 1788. Prende quella mattina avvio una traversata che sarà rallentata dal ripetersi di calme prolungate e venti contrari, inconvenienti che portarono a sei giorni la durata della navigazione. Ma fin dalla prima notte, sul 25, quando l’isola di Capri era stata doppiata da alcune ore, si mostra al celebre professore di Storia Naturale dell’Università di Pavia una straordinaria avvisaglia, e quasi lo invita a dare un sollecito inizio alle sue osservazioni: “cominciai a scorgere, annota, cotal prodigio di Stromboli, quantunque da me lontano ben cento miglia.

Pareva un soffio di vampa, che d’improvviso mi feriva debilmente gli occhi, e che dopo due o tre secondi spariva. Scorsi dieci o dodici minuti primi, ricompariva la fiamma, poi dileguavasi. Per più ore fui contemplatore di quel picciolo spettacolo, il quale diversificava solamente nella maggiore o minore durata, e negl’intervalli alle accensioni frapposti”. Spallanzani giunge a Messina il 29 agosto, in una città che non aveva ancora sanato le profonde ferite del terremoto che l’aveva colpita cinque anni prima, nel 1783. Raggiunge via mare Catania per intraprendere numerose e fruttuose ricognizioni sull’Etna. A Stromboli Spallanzani si reca un mese più tardi, il primo ottobre, una volta presa stanza a Lipari il 12 settembre, per compiere le sue ricerche nelle isole dell’arcipelago eoliano che, “in quanto figlie tutte quante del fuoco, sono state il primario, e più lusinghiero motivo per visitarle”. A Lipari, ospite del console, godeva di un appartamento messo a disposizione sua e di un “pittore”.

Vi poté allestire una sorta di laboratorio scientifico con la strumentazione indispensabile a eseguire le prime analisi e una prima catalogazione dei reperti che il naturalista veniva raccogliendo. Sappiamo che le incisioni che illustrano i volumi dei Viaggi alle Due Sicilie pubblicati nel 1792 furono realizzate da Francesco Lanfranchi (1737-1800), “pittore egregio della R. Università di Pavia”, ma ignoriamo il nome del pittore che, attenendosi alle meticolose indicazioni che lo scienziato gli forniva, andava realizzando dal vero i disegni (“ognuno di tai disegni è stato ritoccato, anzi grandemente perfezionato dal Sig. Lanfranchi”) delle aspre montagne emergenti in quel circoscritto braccio di mare. Mare esposto a venti che mutano impetuosi e che Spallanzani non manca di registrare puntualmente, per verificare se siano o no da escludere influenze nel contegno dei fenomeni vulcanici, anche sottomarini. In tutti i casi, quei venti condizionavano assai gli spostamenti di Spallanzani da un’isola all’altra.

E se il primo contatto notturno con la lontana visione di Stromboli fu prolungato e condotto con agio per le bonacce agostane del viaggio di andata, l’arrivo a Stromboli conseguì ad una navigazione felicemente contrassegnata da venti più che favorevoli. Leggiamo il bel resoconto che ce ne fa Spallanzani: “ciò avvenne il primo di Ottobre, colta ivi (a Lipari) l’opportunità del ritorno di una feluca a Stromboli. Era di buon mattino, soffiava un forte, ma spiegato libeccio, accompagnato da interrotte nubi temporalesche. Agitato era il mare, ma favorevole essendo il vento per questa velata, il padrone della feluca, che era altresì il timoniere, sperar mi fece che non incontreremmo disastri, e sol mi disse scherzando, che avremmo ballato. Spiegate erano tutte le vele, e l’andar nostro non era un correre, ma volare. Non ostante che il vento, e il mare ingagliardissero sempre di più, e che or ci vedessimo sospesi sulla punta d’un onda, or profondati come in una voragine, nulla avevamo a temere, per essere sempre stato il libeccio intavolato per poppa; e in men di tre ore giungemmo a Stromboli, che è a trenta miglia da Lipari, dato fondo a nord-est, dove il corpo della Montagna rintuzzando l’empito del vento, rendeva il mare meno sconvolto”. La corsa della feluca era accompagnata da uno stuolo di delfini che, rompendo “l’impetuoso scontro del fiotto, volavano con la rapidità di un dardo”.