Il governo più effimero della storia democratica spagnola ha abbassato la saracinesca ieri mattina alle 10, quando il presidente Pedro Sánchez ha annunciato che scioglierà le camere il 5 marzo e che pertanto le elezioni si celebreranno il 28 aprile, un mese prima delle elezioni europee e amministrative del 26 maggio. Solo nel 1979 gli spagnoli erano stati chiamati a votare due volte in un mese. Dal dicembre 2015, questa sarà la terza volta che eleggeranno Congresso e Senato.

LA VITA POLITICA del leader socialista, dato per spacciato più di una volta, è sulle montagne russe. Eletto contro ogni pronostico segretario di un Psoe in caduta libera, era stato fatto fuori dai baroni del partito (in particolare dall’andalusa Susana Díaz, che in seguito, oltre a perdere a dicembre il potente feudo andaluso, gli avrebbe disputato invano la segreteria). Lui non si diede per vinto, e contro ogni pronostico, dimessosi da deputato per non accettare l’ordine di scuderia di permettere il governo Rajoy (dopo aver tentato senza successo di formare un governo con Ciudadanos e Podemos), cominciò una lunga campagna per riconquistare la segreteria. Per la seconda volta, gli iscritti gli diedero la vittoria. E i suoi (moltissimi) nemici interni furono costretti a far buon viso a cattivo gioco.

Ma la sua linea politica rimaneva vaga, e spesso molto vicina a quella dei popolari (la repressione in Catalogna è solo uno degli esempi). Ancora una volta, però, la fortuna aiutò l’audace: di nuovo, contro ogni previsione, con mezzo partito contro, decise di imbarcarsi in una operazione politica disperata: mozione di sfiducia contro Mariano Rajoy. Approfittando del discredito legato alla corruzione e del blocco politico sulla questione catalana, Sánchez miracolosamente a giugno scorso è riuscito a mettere insieme una improbabile alleanza fra partiti nazionalisti, Podemos e alleati: non era mai successo che una mozione di questo genere avesse successo.

FORTI DI SOLI 84 deputati (su 350), i socialisti hanno fatto di Podemos l’alleato principale. Le prime mosse del governo hanno entusiasmato anche i più scettici: due terzi di ministre, l’arrivo spettacolare dei 620 immigrati dell’Aquarius, un attivismo sullo scacchiere internazionale che la Spagna aveva perso da anni. E poi, molte promesse: via le lame dalla rete che separa le enclavi di Ceuta e Melilla dal Marocco, riapertura del dialogo con il governo catalano, nuove misure sociali.

La realtà, come sempre accade, è stata più prosaica: la politica sull’immigrazione non è cambiata significativamente (la nave di Proactiva Open Arms bloccata nel porto di Barcellona ne è dolorosa immagine, e le lame ci sono ancora), il dialogo con il Govern catalano c’è stato (approfittando anche del cambio di governo a Barcellona), ma non è arrivato a risultati eclatanti, e certamente non ha sbloccato la situazione (né quella politica, né quella giudiziaria). Non a caso il colpo di grazia al governo lo hanno dato proprio i partiti indipendentisti, affossandone la finanziaria mercoledì.

Neppure la misura più simbolica, la rimozione del cadavere del dittatore Franco dal monumento statale, è stata portata in porto: ieri il governo ha finalmente chiuso il procedimento, che però potrebbe ancora essere bloccato dal Tribunale supremo (i famigliari, la Fondazione Franco e persino i monaci che custodiscono il cadavere hanno impugnato la decisione).

Giocoforza, dato che la presidenza del Congresso è in mano a Pp e Ciudadanos, in questa sua breve legislatura Sánchez ha dovuto far ricorso a decreti: ne ha approvati 25 (più, nonostante tutto, 13 leggi). Unica sconfitta, il decreto sugli affitti, bocciato da Podemos perché il governo non aveva mantenuto la promessa di calmierare i prezzi. Alcuni dei decreti approvati sono molto importanti: per esempio, la restituzione del diritto alla salute universale, il salario minimo a 900 euro (per 14 paghe), la pensioni rivalutate con l’inflazione, l’implementazione del piano contro la violenza di genere. E altre sei leggi verranno discusse la settimana prossima, prima dello scioglimento.

L’IDEA DI SÁNCHEZ era di mantenersi al potere fino al 2020 per questo ha deciso di rischiare presentando una manovra marcatamente sociale, grazie al negoziato con Podemos, con cui sperava di presentarsi alle elezioni con un profilo di sinistra. La mossa non gli è riuscita: le elezioni in Andalusia, che hanno visto l’ascesa per la prima volta dell’estrema destra, e di un patto tripartito delle destre, hanno gettato una lunga ombra. La difficoltà dei negoziati con il governo catalano, per giunta nella settimana in cui iniziava il processo politico contro l’indipendentismo, ha fatto saltare i piani.

Ora vedremo se la buona stella di Sánchez lo accompagnerà dopo il 28 aprile: ancora una volta le previsioni sono fosche, le tre destre sembrano ringalluzzite dai sondaggi. Se non altro, stavolta l’interim governativo nel caso di un nuovo blocco post elettorale toccherebbe a Sánchez. E il doppio appuntamento elettorale certamente non favorirà il dialogo.