Alla fine la Riforma del Lavoro è passata – 175 a 174 – in modo rocambolesco, grazie all’errore di un deputato del Partito popolare, provocando in aula una comprensibile bagarre, dopo una giornata tesissima, con la destra che chiedeva di ripetere la votazione. Poco prima la presidente dell’aula Batet aveva, sbagliando, affermato che la legge era stata affossata, per poi rettificare.

Il governo del socialista Pedro Sánchez aveva i voti in parlamento per migliorare alcune parti della Reforma, come chiesto da alcune formazioni che gli garantiscono la maggioranza parlamentare, ma ha scelto di blindare il testo approvato al termine di un serrato confronto con la Ceoe – la Confindustria – e i sindacati. Il dibattito parlamentare per l’approvazione del decreto legge varato il 28 dicembre si è così trasformato in un muro contro muro. Ad opporsi non sono stati solo Vox e i popolari – i quali hanno annunciato il ritorno al testo originario dopo la loro ineluttabile vittoria alle prossime elezioni – ma per motivi opposti anche alcuni partiti di sinistra e/o indipendentisti.

L’accordo alla base del governo di coalizione includeva, esplicitamente, la cancellazione della controriforma del lavoro partorita nel 2012 da Mariano Rajoy che introduceva una delle legislazioni all’epoca più liberiste dell’Ue.

Poi, però, la derogaciòn è scomparsa dal programma di governo, e più volte i ministri di Unidas Podemos hanno accusato i socialisti di voler annacquare il testo redatto dalla ministra del Lavoro Yolanda Díaz. Ad accelerare l’approvazione ci ha pensato Bruxelles, che ha subordinato lo sblocco di una tranche da 12 miliardi del Recovery Fund alla improrogabile riduzione della precarietà.

Il testo approvato stravolge quello precedente in molti punti: ripristina la prevalenza degli accordi di settore su quelli aziendali; reintroduce la «ultra-attività» dei contratti collettivi (la loro estensione quando questi scadono senza che se ne sia concordato il rinnovo); riduce drasticamente le forme di lavoro precario e temporaneo; limita la pratica del subappalto.

Ma, come hanno rimproverato a Sánchez i rappresentanti di Erc e della Cup (Catalogna), del Bng (Galizia), di Bildu e del Pnv (Paese Basco), così come centinaia di militanti del sindacato Cgt e di Anticapitalistas (scissione di sinistra di Up) che manifestavano fuori dal parlamento, la nuova legge non mantiene tutte le promesse. Ad esempio non aumenta gli indennizzi ai lavoratori in caso di licenziamento; non ripristina l’autorizzazione amministrativa in caso di licenziamenti collettivi; non recupera l’obbligo per le imprese di pagare i salari arretrati ai lavoratori licenziati arbitrariamente e reintegrati.

Gli estensori del testo hanno rivendicato la rivoluzione copernicana rappresentata dal decreto legge entrato in vigore a inizio 2022, e che secondo i dati sull’occupazione resi noti mercoledì ha già prodotto effetti positivi: gennaio ha visto il minor aumento della disoccupazione rispetto a dicembre (dopo il boom dei contratti brevi accesi per le festività) dal 1998 e un aumento massiccio dei contratti a tempo indeterminato del 92%.

I parlamentari di Up hanno rimproverato le sinistre indipendentiste di votare come Pp e Vox e di fare un favore ai nemici dei diritti dei lavoratori. Ma alla fine, se il testo è stato approvato è stato anche grazie ai voti di alcune formazioni di destra come Ciudadanos o dei nazionalisti catalani del PdeCat, che hanno rivendicato una scelta dettata dal senso di responsabilità e dal consenso raggiunto da imprenditori e sindacati. Disobbedendo alle indicazioni del partito, invece, due deputati della destra navarra hanno votato «no».