Si stava preparando da alcuni anni lo «scontro fra treni» verificatosi nelle ultime settimane e che sembra complicarsi ogni giorno di più. La soluzione è particolarmente difficile perché si parlano linguaggi diversi. Non mi riferisco al catalano e al castigliano.

Madrid comunica con la forza poliziesca e con la legge vigente. Barcellona, con la legittimità delle urne, la volontà popolare, la rappresentazione, i simboli. Il presidente Puigdemont ricorre all’ambiguità e mette in scena una dichiarazione di indipendenza che non c’è stata. Il premier Rajoy manda migliaia di poliziotti a sequestrare le urne e chiudere i seggi. Due linguaggi che difficilmente possono capirsi. Due piani paralleli.

Avendo dalla sua il potere dello Stato, il governo di Rajoy puntella la propria posizione con la repressione e gli arresti: di recente, i «due Jordi» (Sànchez e Cuixart), leader delle organizzazioni civili indipendentiste che in più occasioni hanno mobilitato milioni di persone a partire dal 2010. Già… nel 2010 il Partito popolare fece ricorso al Tribunale costituzionale contro la proposta di Estatut d’Autonomia (Statuto autonomo) approvato dal Parlamento catalano, dal Congresso dei deputati spagnolo e mediante referendum in Catalogna. Una ferita che con il tempo anziché rimarginarsi si è aggravata, con la forte crisi politica ed economica che nel frattempo ha colpito la Spagna.

La strategia scelta da Rajoy è condannata al fallimento. Oggi la Catalogna è più vicina all’indipendenza rispetto a un mese fa, e molto più vicina rispetto a sette anni fa. Da allora, in Catalogna la percentuale di indipendentisti è raddoppiata, arrivando a la metà. Il governo spagnolo non sembra rendersi conto che la materia prima del conflitto (e la sua soluzione!) è l’opinione pubblica catalana. Le tecniche di repressione richiamano alla memoria dei cittadini catalani (ma anche a molti spagnoli) scene vissute durante la lunga dittatura del generale Franco. E questo allontana sempre più la gran parte della popolazione catalana dal paese presieduto da Rajoy.

E si fa strada un fenomeno al quale pochi hanno prestato abbastanza attenzione: gli indipendentisti non nazionalisti. Una parte crescente dell’indipendentismo catalano è formata da cittadini che non sentono in modo particolare l’esistenza di un popolo catalano o di una nazione catalana. Semplicemente, vogliono rendersi indipendenti da quello che rappresenta la Spagna ai loro occhi: un insieme di valori legati a epoche passate, una Transizione incompiuta, una democrazia di bassa qualità. Con il Partito popolare al governo, queste sensazioni si acutizzano. Con la repressione del voto del 1 ottobre, poi, con i due Jordi in carcere, con le minacce di dissolvere l’autonomia della Catalogna, gli indipendentisti non nazionalisti non fanno che aumentare.

Da parte sua, Puigdemont non dedica sforzi sufficienti al dialogo con l’opinione pubblica spagnola. Ma la soluzione del conflitto passa anche per quella. Il 62% degli spagnoli fuori dalla Catalogna è contrario a negoziare un referendum legale sull’indipendenza in Catalogna. La road map indipendentista deve rendersi conto che i suoi obiettivi possono passare solo per una soluzione negoziata, rispetto alla quale l’opinione pubblica del resto della Spagna è un elemento chiave. Nel 1932, Ortega y Gasset affermava che la questione catalana «è un problema che non si può risolvere, si può solo sopportare». Anche oggi è difficile immaginare una soluzione a questo conflitto. Chi si sente indipendentista non smetterà di esserlo (e di votare in tal senso) a causa della repressione; al contrario. E chi ritiene che l’unità della Spagna sia sacra e che non si debba parlare di un referendum per l’autodeterminazione, difficilmente cambierà opinione di fronte a decisioni unilaterali della Generalitat catalana; al contrario.

Nell’orizzonte immediato, ecco un ulteriore elemento di tensione: Rajoy minaccia di applicare la prossima settimana l’articolo 155 della Costituzione, con la «coazione federale». Nel mondo ci sono pochi precedenti di applicazione di questo meccanismo: solo nella repubblica di Weimar (che non finì molto bene) e, intorno alla metà del secolo scorso, negli Stati uniti per obbligare gli Stati del Sud ad applicare la risoluzione della Corte suprema e quindi abolire la segregazione razziale nelle scuole. La «coazione federale» può servire, in casi specifici, a garantire l’applicazione di una legge in una parte del territorio, ma difficilmente potrà risolvere la situazione attuale. Al contrario, minaccia di mettere a repentaglio la stessa stabilità costituzionale in Spagna.

Conseguentemente, l’unico modo per ridurre il conflitto è il dialogo fra le due parti. Ma anche il dialogo diventa una specie di utopia quando le letture che si danno dell’«avversario» non corrispondono alla sua realtà. In Catalogna la maggioranza degli indipendentisti non misura adeguatamente la forza dello Stato e la fobia che una rottura territoriale suscita nella maggioranza degli spagnoli – e non bisogna trascurare il fatto che la sociologia della Spagna non è quella del Canada o del Regno unito. E a Madrid continuano a non capire che la via della repressione può solo dare più combustibile alla pulsione indipendentista, e sembrano confidare in una risposta del secolo scorso. La lettura della realtà dell’«avversario» sembra percorrere binari paralleli.

* docente di sociologia all’Universidad Autónoma di Madrid