Quando arrivai a Atripalda, quasi attaccata ad Avellino, 4000 anime, di notte, in auto, seguendo le strade ancora percorribili, erano trascorsi sette giorni dalla grande, tremenda scossa del 23 novembre e pensavo di arrivarci abbastanza preparata dalle cronache, molto avevo letto e visto grazie al lavoro dell’informazione scritta e ai reportage fotografici e televisivi.

Ma non potei ugualmente evitare lo choc perché improvvisamente ero finita in uno scenario di guerra. Donne e uomini come fantasmi vaganti tra le rovine, occhi spenti, ma soprattutto la morte, i cadaveri bianchi di calcina, le bare, i lamenti. Si avanzava nel territorio superando i posti di blocco naturali per gli ammassi di macerie, guai a perdersi carta e penna, le reti di comunicazione poche e intermittenti.

Una settimana dopo, nella vergogna dell’assenza dei soccorsi, davamo notizia di una donna di 80 anni ritrovata viva ma senza speranza, e di un bambino di 10 anni che invece ce l’avrebbe fatta. Si cercava di raggruppare gli orfani, di convincere i vecchi a trasferirsi negli alberghi. Una missione difficile perché le persone anziane preferivano lasciarsi morire dove erano nate.

Insieme alla paura, alla sofferenza, al dolore, attraversando quelle montagne, entrando in quei paesi poverissimi, si faceva largo con prepotenza un altro sentimento, la rabbia. Contro chi aveva distrutto, ben prima del terremoto, quella parte d’Italia, quell’Italia fragile, sconosciuta, devastata dalle case abusive tirate su dalla speculazione edilizia. Insieme ai morti venivano fuori i cementi democristiani: sindaci, assessori, costruttori, camorristi, ladri e profittatori. Il terremoto non li aveva distratti nemmeno per un momento. In mezzo all’inferno noi potevamo ricostruire l’albero genealogico della criminale speculazione democristiana.

Le nostre cronache dall’avellinese non avevano nemmeno bisogno di specificare il partito di appartenenza dei sindaci, erano tutti della stessa, grande, onnivora famiglia democristiana. Una rete assoluta di potere, ad un certo punto travolta dal mare di volontari, medici, operai, studenti e di giornalisti che andavano a lavorare, come in un’autopsia a cielo aperto, sulla criminalità politica.

A San Mango sul Calore un gruppo di giovani volontari dovettero difendersi da un medico della zona che si faceva proteggere da loschi figuri del luogo, compreso un tizio che spuntò fuori con un fucile.

La scassata macchina dei soccorsi dell’osannato Zamberletti, denunciata dal presidente Pertini fin dalle prime ore dopo la tragedia, era una piccola cosa in confronto all’enorme protezione civile impersonata da operai, studenti, personale medico, che arrivavano da ogni angolo del paese portando tutto, dai gruppi elettrogeni per accendere la luce nel buio delle montagne, alle medicine, alle tende. Trovare riparo in una roulotte era un privilegio per pochi.

Era evidente che, dopo il terremoto, il freddo e il fango ne avrebbe ammazzati ancora tanti. A Luogosano piccolo paese dove miracolosamente nessuno era morto sotto le macerie, la polmonite stava già falcidiando i vecchi. In tutta l’area più colpita mancava tutto, anche il cibo, figuriamoci un tubetto di dentifricio che costava 4000 lire e un pacco di spaghetti 1200. I sindaci erano bravissimi a imboscare gli aiuti, tenendo fuori la rete di soccorso del sindacato e del partito comunista.

Il Bel paese ferito a morte dal malgoverno e dal malaffare, da una classe politica democristiana inetta e ingorda era sotto i nostri occhi. L’opinione pubblica si rese conto che era necessario un intervento radicale, profondo, duraturo per prevenire e curare quelle terre. Non cambiò nulla. Un fiume di miliardi di lire affluì in quelle zone, almeno 60mila miliardi, nel corso degli anni. Non servirono se non in piccola parte alla ricostruzione. Allora credevamo che insieme alle case, alle chiese, ai campanili, ai municipi era crollata anche l’Italia del malaffare, della corruzione, della connivenza con camorra, mafia, n’drangheta. Non fu così.

E ce ne accorgemmo alcuni decenni dopo con Mani Pulite. I quarant’anni trascorsi da allora non sono stati sufficienti a renderci tutti consapevoli. La lezione dei 23 novembre 1980 ancora non l’abbiamo imparata.