C’è un momento in cui devi decidere: o sei la principessa che deve essere salvata, o sei la combattente che si salva da sé». Tutte in piedi per Touria Tchiche, le sue parole dicono tutto delle storie che si ascoltano oggi alla Camera.

Milletrecento donne hanno risposto all’invito della presidente Boldrini, tutte riconoscono un pezzo di sé nelle vite delle altre. Per questo gli applausi sforano i tempi.

Forza che dà forza. L’emozione è un’onda alta sopra le onde, sono donne che hanno subìto violenza e scelto di ribaltare la vita. Quelle che non sono morte.

Tutte raccontano di non essere morte grazie a se stesse ma anche grazie alle altre: la gratitudine è un sentimento militante, non ce n’è una che non citi un’associazione, una rete, l’Udi, insomma quelle che hanno dato ascolto e mezzi materiali – case protette, soldi, inserimento al lavoro. Senza, non c’è uscita dall’inferno. Indicazione chiarissima per un legislatore che avesse intenzione.

E così l’aula trabocca di sole donne (immancabili le polemiche), ma donne non sole. Touria ha 42 anni, cinque figli, un matrimonio combinato in Marocco, poi l’Italia – un paesino vicino Bergamo – , le botte del marito, la denuncia, il tribunale e finalmente una vita nuova.

LA PRIMA A PARLARE è la dottoressa Serafina Strano. È la prima volta che mostra il volto. Guardia medica, «una notte di terrore» due mesi fa a Trecastagni (Catania), «sono stata selvaggiamente picchiata, ripetutamente stuprata senza poter dare l’allarme», non c’era nessun modo per farlo in quella sua stanza senza possibilità di comunicazione all’esterno, una trappola, ci è riuscita con una mossa al di là dell’immaginabile, «sono stata coraggiosa? Sono rimasta lucida», «Sono qui perché sono viva e non provo nessuna vergogna per ciò che mi è successo». Ma la denuncia è un cazzotto allo stomaco: istituzioni latitanti («solo la presidente Boldrini mi ha telefonato, mi ha parlato in un modo umano»), «alla Asp di Catania in questi mesi non è cambiato niente», «esigo dallo Stato, anche per le mie colleghe che lavorano con angoscia e paura, che i presidi di guardia medica vengano messi in sicurezza».

BOLDRINI PRESIEDE L’AULA, stavolta ce ne vuole per suonare la campanella che chiede di chiudere un intervento. Ha voluto lei questa ‘seduta straordinaria’ nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Seduta straordinaria ma sul serio, frutto di un’attenzione dedicata nel corso di tutta la legislatura.

C’è la diretta Rai, ci sono le telecamere, ci sono le critiche di chi parla di un evento a scopo elettorale. C’è soprattutto un dato di realtà: «Ogni due giorni e mezzo una concittadina viene uccisa per mano di chi dovrebbe amarla. La violenza non è questione che riguarda esclusivamente le donne. Riguarda il Paese e sfregia tutta la comunità», «Perché la gran parte degli uomini che rifiutano la violenza non si sente coinvolta in questa battaglia? A questo silenzio non sfugge il mondo politico e istituzionale, con qualche eccezione». Le donne sono il 51% della popolazione, «Siamo la maggioranza, non ci possiamo comportare da minoranza esigua».

Le fa eco Maria Elena Boschi: «Una società non può accettare di rinunciare alla metà delle sue intelligenze». La sottosegretaria non rinuncia a rivendicare il «Piano antiviolenza del governo».

MA PRIMA DI LEI Antonella Veltri, di Dire (Donne in Rete contro la violenza, raccoglie 80 centri in tutta Italia) aveva spiegato che quel Piano ancora non riconosce a pieno il ruolo dei centri. Quanto ai finanziamenti, la Corte dei conti nel 2016 ha denunciato che le regioni hanno speso male le risorse destinate alle strutture, «un fiume di soldi erogati ma dispersi».

E la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per non aver saputo proteggere Elisaveta Talpis e suo figlio dalla violenza del marito. Ha ammazzato il figlio, ha provato ad ammazzare anche lei.

COSÌ È STATO AMMAZZATO anche Federico, il racconto di Antonella Penati è lucido e straziante, un mazzo di fiori gialli sul banco: otto anni e 37 coltellate, il padre era arrivato scortato dai servizi sociali che avevano prelevato il figlio da scuola per portarlo da lui, un «incontro protetto». Protetto, scandisce Antonella. Lei dal magistrato era stata definita una madre «esagerata, ipertutelante e alienante, dedita a demolire la figura del padre».

E COLTELLATE sono quelle di Emanuela Di Vito, cinque, viva per miracolo «e grazie ai medici». Ha denunciato, ottenuto una condanna, («le cinghiate sono andate in prescrizione»), il suo ex fidanzato ha fatto presto ad uscire e ripresentarsi davanti alla sua macchina a fare gesti sfottenti e minacce, «alla fine la condannata sono io, nel mio carcere, e senza sconti di pena».

Parla Concetta Raccuia, madre di Sara Pietrantonio, bruciata dall’ ex alla periferia di Roma nel maggio del 2016. Maria Teresa Giglio, mamma di Tiziana Cantone, suicida nel maggio di un anno prima, un filmato di pornografia non consensuale era stato diffuso in rete, alla fine di una sua infruttuosa battaglia per farlo cancellare è finita condannata a pagare le spese legali a cinque siti internet, «costretta a togliersi la vita per ottenere il diritto all’oblio». Blessing Okoedion, nigeriana, vittima di tratta, «in un attimo mi hanno ridotto a schiava». È scappata alla polizia, ha trovato quello giusto.

STORIE INASCOLTABILI, difficili da raccontare. Poi c’è il soccorso al carnefice dell’informazione che «rivittimizza», spiega la giornalista Luisa Betti. Ieri a Venezia la Federazione della stampa con l’associazione Giulia ha varato un manifesto per la responsabilità quando si maneggiano cronache di violenza.

COME LE MADRES ARGENTINE, i figli uccisi trasformano le madri in leonesse della libertà delle altre. La sociologa sociale Linda Laura Sabbadini traduce il fenomeno in numeri: «Non dobbiamo piegare i numeri alle nostre convinzioni ma costruire le nostre convinzioni sui numeri», parla del fatto che la stragrande maggioranza delle violenze arrivano da un fidanzato non da uno sconosciuto straniero. «Ma i numeri dicono anche che raddoppiano le donne che denunciano e aumentano le ragazze che chiudono una relazione al primo segnale di allarme», «La forza delle donne è la loro unità, siamo coscienti degli avanzamenti ma sappiamo che la strada è lunga». Serve la memoria, raccontano le donne del centro «Renata Fonte» di Lecce, Renata era un’assessora che si opponeva alla lottizzazione di Porto Selvaggio, oggi oasi naturale. E le dicono le donne che portano il fazzoletto tricolore dell’Anpi.

SE NON SI FINISCE ammazzate, ci sono tante possibilità di rinascere dopo la violenza di un uomo.

Tante che però non sono mai abbastanza: lo racconta Rosaria Maida, dirigente della IV sezione della Mobile di Palermo, «onorata come donna e come poliziotta di essere qui», lo racconta Maria Monteleone,procuratrice a capo del pool antiviolenza di Roma, lo racconta Gabriella Carnieri Moscatelli, pioniera e fondatrice del Telefono Rosa.

Lo racconta Grazia Biondi, vittima di violenza di un uomo ma ora fulcro instancabile dell’associazione Manden, lo racconta Olimpia Cacace, madre di Alessandra, 24 anni, travolta e uccisa dall’auto dell’ex due mesi fa.

Che a Grazia si è rivolta «per sopravvivere a mia figlia».