La nuova crisi della società europea e la contestuale riemersione di istanze regressive nel suo corpo sociale, politico e culturale hanno riacceso un dibattito, piuttosto incerto nella forma e nel merito, sul ritorno del fascismo e sul pericolo che questo rappresenta per la democrazie liberali.

L’uso politico della storia si caratterizza come torsione della conoscenza e viene utilizzato come forma di regolazione e controllo selettivo della memoria finalizzata al governo del presente.
In questo processo l’associazione di idee (fascismo ieri/fascismo oggi) come fattore sostitutivo di un preciso significato di valore (individuazione delle radici del fenomeno e capacità di eradicazione) si manifesta come elemento di superficie che non misura la natura e la profondità della crisi della società contemporanea nonché i caratteri di sostanziale difformità che ne differenziano la forma e la sostanza.

Così se il fascismo storico si manifestò in un contesto caratterizzato da un’Europa divisa dai nazionalismi e lacerata dal massacro della Grande Guerra, i fenomeni che si rivelano nel nostro presente emergono dal quadro dell’Unione Europea e da oltre settanta anni di pace nel continente. Ci troviamo di fronte, dunque, ad espressioni politiche, economiche, congiunturali e sociali molto diverse che hanno finito per espandersi in tutti gli strati della società contemporanea in ragione di fattori esogeni ed endogeni molto diversi a partire dalla nuova divisione internazionale del lavoro che sta ridisegnando l’intero mondo globale spostando enormi quantità di capitali, produzione e posti di lavoro con una velocità rapidissima e senza ritorno.

Di fronte ad un segno di tale portata storica l’incertezza, la paura, la precarietà attraversano con una spinta difficilmente governabile il corpo sociale dei paesi investiti da fenomeni di questo impatto. L’accelerazione tecnologica ed il progressivo restringimento della forza lavoro necessaria acuiscono i fattori di criticità allargando la faglia della disuguaglianza e contribuendo alle divisioni interne alle classi sociali più basse e demograficamente più ampie.

La riduzione delle risorse pubbliche destinate al Welfare State, l’assorbimento privatistico dell’accesso al diritto alla salute e l’impoverimento del sistema formativo-culturale convergono ad indicare una radicale crisi della democrazia liberale ed è questo che appare essere il cuore del problema sotto la superficie d’allarme di un «eterno ritorno» del fascismo. Ai termini della crisi sociale si sono aggiunti quelli delle crisi umanitarie delle popolazioni migranti (alimentate dalle politiche di guerra o di sovra sfruttamento controllato delle risorse disponibili) ed anche su questo terreno più che una capacità di affermazione dei «nuovi fascismi» appare manifesta l’incapacità di relazione e indirizzo dei sistemi liberali e delle loro classi dirigenti che ha prodotto una rottura profonda tra rappresentati e rappresentanti minando una delle basi fondamentali della democrazia delegata.

Ciò ha fornito una radice d’origine alla ricomposizione di movimenti disintermediati e plebiscitario-leaderistici facenti capo non solo alla destra regressiva ma anche a quella sinistra di mercato che ha accompagnato il processo di cancellazione dei costi di mediazione presentato come forma visiva della sua nuova identità post-ideologica e sistemicamente compatibile.

In questo quadro i movimenti e le forze regressive, «identitarie» e neo-nazionaliste si sono fatte interpreti delle domande di ampi strati sociali ma questo non significa affatto che abbiano radicato una base di massa e composto un blocco sociale organico in grado di modificare gli assetti generali. Hanno colto le richieste ma non sono in grado di determinare soluzioni.
All’interno di questa irriducibile contraddizione ripropongono linguaggi e modelli che evocano la «società categoriale» (mutuata in forma moderna dai regimi dittatoriali) come loro principale, se non unica, offerta politica di risposta alla crisi del sistema liberale.

Il fascismo storico costruì la sua «categorizzazione» contro dissidenti politici, omosessuali, testimoni di Geova, zingari, sinti, rom, ebrei, disabili. Attraverso la loro criminalizzazione giunse a normare per legge la discriminazione politica, sociale, religiosa e razziale, nella logica della costruzione di una società monodimensionale che escludeva per principio la differenza «dal corpo sano della nazione».

Alle divisioni in classe, alle disuguaglianze, all’asimmetria di potere e di governo tra classi dirigenti e ceti popolari (tutti elementi presenti nelle democrazie liberali) le nuove destre sovrappongono nell’immaginario collettivo un corpo sociale diviso in categorie distinte e differenziali sia sotto il profilo della legittimità e dell’accettazione pubblica sia sotto il profilo dei diritti e delle norme di legge.

Dentro la sua incapacità strutturale ed ideologica di promuovere verso l’alto una politica dei diritti, della redistribuzione della ricchezza e di emancipazione sociale la destra regressiva cerca di dare impulso alla costruzione di un impianto diseguale verso il basso, che sottrae e non riconosce legittimità piena ad alcune «categorie». Riecheggia in questo i termini propagandistici del fascismo ma si trova collocata in un contesto storico in cui la forza della realtà non le rende possibile trasformarla compiutamente anche se lascia sul suo corpo ferite dolorose.

È in questo crinale che si dispone il punto di caduta ovvero la risposta praticabile.

L’antifascismo non solo come contrasto e lotta contro le destre regressive ma come teoria dello Stato (questo fu storicamente durante il regime, nel corso della Resistenza ed in ultimo nella scrittura della Costituzione) e riforma inclusiva dei rapporti sociali in Italia ed in Europa (questo fu il Manifesto di Ventotene). Sta nel trasformare con caratteri sociali la nostra democrazia in crisi l’unico anticorpo materiale contro paure inesistenti e pericoli reali.