L’eterno Montalbano (un miliardo stimati gli spettatori complessivi fra prime e infinite repliche…), il comedy Questo nostro amore, gli attori Sergio Castellitto e Giuliana De Sio, sono fra i vincitori della settima edizione del Roma film Festival che si è conclusa ieri. Sei giorni di proiezioni, cinquanta anteprime, tredici ospiti internazionali tra sceneggiatori, attori, registi e produttori, e una media presenze di ventiseimila spettatori. «Il 12% in più del 2012- spiega il direttore artistico Steve Della Casa- Si dovrà tenere conto del successo registrato dalle web series per rimodulare le prossime edizioni. Quello del 2013 è stato un nuovo inizio, e un nuovo concept di festival che abbiamo presentato: una base di partenza importante per fare meglio in futuro».
Nonostante le dichiarazioni di intenti degli organizzatori, però, il futuro della manifestazione non è ancora chiaro perché i fondi a disposizione diminuiscono e l’ipotesi di farla confluire nel mare magnum di un’altra claudicante kermesse capitolina, la Festa del cinema, non è ancora tramontata.
La vetrina nazionale, che nelle intenzioni vuole misurare lo stato di salute del  settore fiction, ha dimostrato grazie a un programma non ricco ma ben strutturato, i limiti della produzione di casa nostra, che sforna progetti a getto continuo più spesso per riempire palinsesti che per effettiva necessità. Sceneggiature deboli e poca attenzione all’attualità, al contrario di quanto accade nelle serie made in Usa, e in alcune del vecchio continente, in particolare nei crepuscolari drama provenienti dal Nord Europa (bellissimo The Bridge, il cui format è stato adattato al mercato americano con Diane Kruger).
Una crisi – spesso – legata all’idea che per sviluppare una serie di successo bisogna per forza farsi contaminare dalle mode, difetto peraltro comune a altre fiction europee.
Prendiamo ad esempio Il ritorno di Ulisse – coproduzione tra Francia (il canale Arte), Portogallo e Italia (Rai 2), composta da 12 episodi ciascuno (a Roma è stata presentata l’anteprima del secondo episodio con un «riassunto» del primo) diretta da Stéphane Giusti con Alessio Boni, scelto per il ruolo di Ulisse, e Caterina Murrino della consorte Penelope. Templi, strade e agorà ricreate in un capannone tra due autostrade nella periferia di Lisbona, pavimenti e pareti scuri – lontani dalla mitologia ricca di luce della Grecia antica – perché, spiega il produttore Frédéric Azemar: «Volevamo procedere nel fango, mescolare l’elevazione degli eroi in questo dramma mitologico, al fango in cui avanzano». Quindi via ogni elemento epico (Omero dove sei?) e spazio a un iconografia simil western.
In realtà l’approccio scimmiotta i nuovi peplum tv come Roma, e ancor più Spartacus: tanto sangue, noiosi combattimenti al ralenti senza l’effetto eccitante della computer graphic (i soldi sono pochi e si vede…), una spruzzata di sesso, ma sempre con l’idea di prendersi troppo sul serio (Boni trasforma Ulisse in una specie di J.R. ante litteram, mentre Penelope/Murrino ha poco dell’affranta Irene Papas nell’originale sceneggiato del ’68 diretto da Franco Rossi. e sembra piuttosto una Bond girl dal décolleté in bella vista).
Frenetica e adrenalinica è invece Sleepy Hollow – tredici episodi trasmessi da Fox della serie ispirata al racconto di Washington Irving La leggenda di Sleepy Hollow, e con più di un rimando alla versione cinematografica di Tim Burton (e tanto di note di Sympathy for the Devil dei Rolling Stones sui titoli come nel film del regista americano…). Tanta (troppa forse) carne al fuoco nell’episodio pilota, dove il protagonista è l’aitante e barbuto Ichhod Crane (Tom Mison), combattente durante la rivoluzione americana al fianco di Washington, resuscitato 250 anni dopo per dar la caccia al Cavaliere senza testa. Si viaggia fra frenesie paranormali, scenari horror e il fantasy con padronanza di generi, grazie alla presenza tra gli sceneggiatori di Orci e Kurtzman, i creatori del tv cult Fringe. Co-protagonista nei panni del tenente Abbie Nills, l’attrice nera Nicole Beharie. Dopo il successo di Kerry Washington in Scandal, i (furbi) network americani hanno scoperto che promuovere star televisive nere in ruoli di rilievo fa salire alle stelle gli ascolti.