Seduto su un letto disfatto dall’incongrua struttura di bambù, in una stanza traboccante di panni, carte, libri, quadri, cianfrusaglie, il poeta Sandro Penna legge ad alta voce, in un tono cantilenante in cui è ancora sensibile l’accento umbro: «La vita… è ricordarsi di un risveglio triste in un treno all’alba…». La camera stringe sul suo corpo: Penna si ferma, sfoglia le pagine dell’edizione Garzanti che tiene in mano, si distrae, commenta, fa battute, si schernisce («sono cose un po’ romantiche», dice). L’immagine inquadra ora il suo volto in primo piano: sceglie un’altra poesia, la recita con voce cadenzata («io leggo i versi proprio come sono scritti»), poi smette, si lamenta dei suoi malanni, parla al telefono, chiede di fermarsi, tace.
È una sequenza memorabile di Umano non umano, un lungometraggio girato da Mario Schifano tra 1968 e ’69 (16 e 35mm, 95’), che forma insieme a Satellite (1968) e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani (1969) una compatta trilogia, unica nel panorama dell’underground italiano, in cui l’artista estendeva al mezzo cinematografico la sua indagine sulle trasformazioni dell’immaginario nell’epoca dei media e della società di massa.
Penna è ripreso nella casa in cui abitava ormai da tre decenni e dove rimarrà sino alla morte nel gennaio del 1977 – quattro stanze al numero 28 di via della Mola dei Fiorentini, al quarto piano, interno 7, in un angolo della Roma rinascimentale prossimo al Tevere –, una casa-tana dall’indescrivibile disordine in cui Elio Pecora ritrovò un tesoro di manoscritti inediti, lettere, appunti, scartafacci e registrazioni su nastro. La cinepresa di Schifano penetra senza esitazioni in questo interiéur così particolare. La prima inquadratura rivela la stanza dove aveva vissuto la madre di Sandro, ora traboccante di tele addossate le una alle altre o appese alla rinfusa, di cornici ammucchiate sul letto, scenario fantasmatico e angusto in cui il poeta interpreta simultaneamente il ruolo del disincantato spettatore dei capricci del gusto e del rapido mutare delle maniere, dello scaltro mercante («la gente che viene da me, insomma, non è molto per l’avanguardia, compra più che altro roba molto figurativa, spesso brutta», confessa), e quello dell’amico e tempestivo sostenitore degli artisti a lui vicini in quegli anni sessanta, da Tano Festa («Guarda, adesso dipinge così, una pittura che potrebbe anche essere commerciale», dice sollevando un suo quadro) a Francesco Lo Savio allo stesso Schifano.
Umano non umano vede scorrere senza nessi apparenti scene di attualità – un picchetto di scioperanti, un livido party altoborghese, cortei di piazza –, immagini di attualità riprese direttamente da uno schermo televisivo in bianconero – si riconoscono frammenti della guerra in Vietnam, della rivoluzione culturale cinese, dell’occupazione sovietica di Praga nella primavera ’68 –, un violento litigio tra una donna e un uomo. Alcuni segmenti contengono cammei di celebrità della musica (Mick Jagger, Keith Richards), di scrittori, artisti, registi contemporanei, da Alberto Moravia ripreso sulla spiaggia di Sabaudia, a Jean-Luc Godard (riferimento essenziale del cinema di Schifano e di questo film in particolare), a Carmelo Bene e Franco Angeli, che realizza, con un gesto che ibrida performance e land art, una grande falce-e-martello bianca sul fianco di una collina. Nel film non c’è nessun tracciato narrativo, nessuna evoluzione o dialettica prima-dopo, interno-esterno (come accadeva invece in Satellite e Trapianto): il ritmo è quello di un «presente continuo», dove blocchi di realtà sono filmati a camera fissa e senza montaggio, in inquadrature impassibili e insieme straordinariamente rivelatrici che riprendono lo stile spoglio e diretto dei film di Andy Warhol.
Il «non umano», secondo la traccia fornita dal titolo di ispirazione nietzschiana, vale a dire, nella prospettiva di Schifano, la società consumista, il quotidiano violento, spettacolare e mercificato, la guerra e l’imperialismo occidentale, si contrappone nel film all’«umano» delle pulsioni, del desiderio, della ribellione, delle lotte operaie. Tutto è osservato da un punto posto a una «distanza siderale» – scrivevano in quello stesso anno Adriano Aprà e Piero Spila su «Cinema & Film» –, da cui gli eventi si presentano «con i loro contorni precisi, decisi, depurati di ogni accidentalità, punti di riferimento sicuri, sprigionanti tutta e sola energia vitale».
La successione di sequenze chiuse ha però un centro di gravità: il corpo, e certo un corpo ambivalente, erotico e politico, gioioso e luttuoso al tempo stesso, esplorato nelle sue manifestazioni pubbliche e private, nel suo potenziale sessuale, nella sua apoteosi narcisista, come agente o oggetto di violenza. Come luogo di un doppio movimento: di sopraffazione e dominio e di emancipazione individuale e collettiva. Un corpo estetico, anche, rifratto nel montaggio ritmico di frammenti di una realtà non più circoscrivibile alla misura del quadro e della pittura («Oggi la pittura sembra finita» è la prima battuta del film, pronunciata in voice over dallo storico d’arte Maurizio Calvesi) perché dimostratasi definitivamente indocile, contraddittoria, refrattaria ai tentativi di imporle una forma o una coerenza.
Nella sequenza con Penna, accompagnata dall’elegiaco terzo movimento de Le Tombeau de Couperin di Maurice Ravel e dall’eco onnipresente del battito cardiaco, Schifano detourna il formato delle interviste ad artisti e scrittori in onda nella televisione italiana di quegli anni (il geriatrico, roco e irresistibile Ungaretti, il burbero e ironico De Chirico), dove la voce fuori campo dell’intervistatore, autoritaria o melliflua, sottoponeva il malcapitato al rituale della lettura o della pennellata «in esclusiva» per i telespettatori. In Umano non umano questa presenza è tuttavia annullata: ne resta solo traccia negli ammiccamenti di Penna, nel «tu» familiare con cui il poeta si rivolge all’interlocutore fuori campo, nel gioco degli sguardi, nei sorrisi.
La pantomima del candore, della svagatezza, dell’affabile reclusione inscenata di fronte alla cinepresa, i vezzi, la sua faccia rugosa di vecchio bambino, i grandi occhi malinconici, i capelli impomatati e probabilmente tinti, ci mettono di fronte all’eccezionale estraneità di Penna, alla sua singolare protesta contro tutto e tutti, ingannevole e testarda strategia di salvezza dal male per tramite paradossale di un’ossessione, la pederastia, che Cesare Garboli definì «una forma di resistenza alla propria oscurità e modernità». In altre parole, ci mostrano la sua persuasione, per quanto ingannevole, di poter contare su un accesso diretto, innocente, alle cose, a una felicità erotica di cui il poeta si riconosceva «prigioniero» e che si traduceva sulla pagina nella forma più solare e numinosa e nella vita in una sempre fugace, clandestina, ustionante soddisfazione carnale. È da questo corpo desiderante, «intriso di una strana / gioia di vivere anche nel dolore», che sgorga come un «fiore senza gambo» una poesia fuori dal tempo e fuori dalla Storia, abbagliata dalla pienezza sensuale di un mondo visto come sempre identico a sé e sempre fuggente.
In una lettera a Penna, scritta nel febbraio del 1970 e diventata con alcuni ritocchi un «segnalibro» per la seconda edizione delle Poesie uscita quello stesso anno, Pier Paolo Pasolini vedeva sommarsi nella personalità del poeta santità e buffoneria, qualità che lo avevano spinto a cercare godimento e salvezza «in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti». Questa santità anarchica «riguarda più la sua poesia vissuta che la sua poesia scritta»: è la prima infatti a «contare veramente, per chi riesce a intravedere in essa ciò che vale al di fuori di ogni valore: la santità del nulla». Ed è in fondo proprio la forza di una poesia vissuta come «illimitatezza sentimentale» il tesoro ritrovato nel film di Schifano, testimonianza di una aspirazione totalizzante a una vita al di sopra delle distinzioni sociali, della dignità, del decoro persino, in cui affermare la singolare regalità dell’artista-Penna, sovrano malinconico e martire del proprio intransigente universo.