La conferma ufficiale dell’avvio di colloqui preliminari a Oslo tra l’opposizione e il governo Maduro ha acceso per la prima volta la speranza di una soluzione pacifica del conflitto in corso. Ma che l’apertura alle trattative da parte di Juan Guaidó rifletta la disperazione del leader di estrema destra lo riconosce anche il New York Times: «Indebolito e incapace di trovare una rapida soluzione alla crisi politica che attanaglia il Venezuela, il leader dell’opposizione è stato costretto a considerare la possibilità di negoziare con Maduro».

Un cambio di rotta – evidenzia il Nyt – che rappresenta «un momento cruciale per l’opposizione», il cui slancio iniziale si è «quasi dissipato» dinanzi alla capacità del presidente di «mantenersi saldamente al potere anche mentre il paese crolla intorno a lui».

In pubblico Guaidó ha cercato di tenere il punto, garantendo che non si presterà a falsi negoziati e ripetendo il ritornello di sempre: «Fine dell’usurpazione, governo di transizione, elezioni libere». Ma è evidente che, se si trattasse solo di questo, non avrebbe mandato i propri rappresentanti a Oslo.

A febbraio, quando la «fine dell’usurpazione» gli sembrava a portata di mano, non aveva avuto problemi a rispondere picche alla convocazione da parte dei governi dell’Uruguay e del Messico di una conferenza internazionale diretta a stabilire «un nuovo meccanismo di dialogo» con l’inclusione di tutte le forze venezuelane.

Da allora, però, Guaidó è passato dalla fallimentare Operazione Cúcuta del 23 febbraio, quella del superpubblicizzato ingresso degli aiuti umanitari «sì o sì», alla disastrosa Operazione libertà, culminata con il suicidio politico del tentato golpe del 30 aprile.

E nel frattempo, mentre le reti sociali si sono riempite di immagini e commenti satirici sull’inconcludenza del ribattezzato «venditore di fumo», le piazze si sono svuotate di sostenitori. Tant’è che la Cnn, implacabilmente antichavista, ha dovuto prendere atto, evocando un possibile «tramonto di Guaidó»: alla protesta dell’opposizione dell’11 maggio non c’erano quasi partecipanti. L’autoproclamato presidente è rimasto senza cartucce da sparare: senza governo, senza esercito, senza popolo e, dopo il fallito golpe, senza più i suoi collaboratori, finiti in carcere, fuggiti dal paese o corsi a rifugiarsi nelle ambasciate straniere.

Senza più poter confidare neppure in un intervento militare Usa, pur apertamente invocato: come evidenzia ancora la Cnn, le critiche esplicite di Trump alla strategia interventista di Bolton hanno «raffreddato in maniera quasi letale» l’opzione del ricorso alle armi.

Non rimaneva altra strada a Guaidó, per non venire definitivamente cancellato dalla scena politica, che rimangiarsi la parola, aprendo a quella trattativa a cui – aveva garantito – le «forze democratiche» non avrebbero «in nessun modo» accettato di partecipare.

Cauto ottimismo è stato espresso da Maduro, che sul dialogo si è sempre mostrato disponibile. Ma se per il presidente i colloqui «per costruire un’agenda di pace per il paese» sono cominciati «con il piede giusto», la sua proposta di indire elezioni legislative anticipate, offrendo all’opposizione la possibilità di «misurare la propria forza con il voto», sembra un azzardo.

Non a caso è arrivata la bocciatura della Ue, secondo cui la crisi non potrà essere risolta «sciogliendo l’Assemblea nazionale», ma solo con «lo svolgimento di presidenziali giuste e libere». Contrario a ogni forma di dialogo si è detto il segretario generale dell’Oea Luis Almagro: «Qui non si tratta di un conflitto tra due parti, ma della via per uscire da una dittatura e restituire le garanzie fondamentali alla gente».