C’è un equivoco – o meglio un pretesto – a proposito del pacifismo: che si tratti solo di un’istanza etica,una scelta per «salvarsi l’anima», sottraendosi individualmente al male pur necessario – la guerra – se si vuole alla fine raggiungere il bene. Il pacifismo è anche questo, certo, ma nei suoi momenti più alti, quando ha mosso movimenti grandi ed è penetrato nel buon senso della società, è stato anche in grado di indicare una specifica politica estera per i paesi in cui operava e cui si rivolgeva. È stato così negli anni ’80, quando si sviluppò una mobilitazione senza precedenti contro l’installazione dei missili da parte della Nato e del Patto di Varsavia.

C’era, in quelle manifestazioni, il rifiuto morale della violenza, ma anche un’idea: che un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali, come recitava lo slogan del movimento, sarebbe stata la sola strada in grado di conferire al nostro continente quell’autonomia che non aveva mai raggiunto, e al tempo stesso il miglior contributo alla agognata democratizzazione dei paesi c.d. socialisti, assai più difficile finchè durava l’assedio.

È proprio questa indicazione di strategia per l’Europa che consentì in quegli anni un inedito proficuo rapporto fra movimento pacifista e schieramenti politici, fra cui si innestò un dialogo che spinse un’ala nienteaffatto secondaria della socialdemocrazia (Palme, Foot, Brandt, Papandreu, gli olandesi del PvA, il Psoe) a proporre una fascia deneuclarizzata in mezzo all’Europa.

Nello stesso Parlamento Europeo si costituì un «intergruppo» pacifista ricco di plurali presenze e assai attivo. (Non mi consta ce ne sia uno attualmente).

E anche il Pci, inizialmente più restio ad accogliere il messaggio, perché sempre preoccupato di non apparire «antiamericano», si aprì poi – con Berlinguer – all’ipotesi del disarmo come un aspetto della costruzione in Europa di quella «terza via» che auspicò isolato.

L’idea di fondo era che è inutile fare patti con gli amici (i blocchi militari), occorre farli, per difficile che sia, con il nemico: e cioè che bisogna cercare il dialogo, il compromesso, un accordo, che naturalmente può farsi solo se ci si sforza di intendere le ragioni dell’avversario.

Oggi la forza del pacifismo si è affievolita, assai minore è la sua capacità egemonica.

Non solo perché talebani e califfato sono i nemici più odiosi possibili, ed è perciò più difficile invocare un dialogo. Ma sarebbe pur sempre possibile comprendere – e agire di conseguenza – le ragioni di quel vasto mondo islamico che per via del colonialismo vecchio e nuovo (e del razzismo verso chi di loro è venuto a vivere in Europa) finisce assai spesso per garantire un retroterra ai più fanatici. La prova sono i disastri prodotti da interventi militari operati ovunque, dall’Afghanistan all’Iraq, senza conoscere il contesto entro cui andavano ad intervenire.

Peggio: volutamente ignorandolo. Se si è arrivati alla drammatica fanatizzazione attuale è soprattutto per questo. Per difficile che sia, anche oggi occorre cercare un «patto con i nemici». E dire con più forza, anche in queste circostanze, che gli interventi militari hanno prodotto solo disastri, irrigidito e fanatizzato le parti.

Quel che rende tuttavia più difficile oggi il compito del pacifismo rispetto agli anni ’80 è l’ottusa sordità che ormai domina gli schieramenti politici: nella socialdemocrazia europea non c’è più ombra di interlocutori, nel Pd meglio non parlarne.

È questo mutamento della sinistra europea, che è anche il segno della crisi della democrazia che viviamo, a rendere così difficile la battaglia pacifista.

(Il che non è naturalmente una buona ragione per arrendersi, anzi).