Le ore che ci separano da domenica saranno in tutta Europa di iniziative diffuse, con gli occhi puntati a Bruxelles, con l’impegno di coloro che hanno sostenuto il popolo e il governo greco a produrre il massimo della mobilitazione nel caso in cui la situazione precipitasse e la scelta delle elitès europee fosse lo strangolamento definitivo della Grecia.

L’elementare ragionevolezza delle argomentazioni portate la Tsipras nel dibattito al Parlamento europeo – il fallimento delle politiche di austerità, l’insostenibilità del debito greco attestata dallo stesso Fmi e la denuncia del ruolo che gli «aiuti» hanno avuto nel salvataggio non del popolo greco ma delle banche, la rivendicazione di una prospettiva progressiva per l’Europa – si scontra col nocciolo duro degli interessi tutelati da quelle elitès, esemplificati in modo emblematico dal voto sul Ttip.

Come per il Trattato di commercio a prevalere dev’essere la remunerazione degli investimenti privati rispetto a ogni forma di tutela pubblica del lavoro, dell’ambiente e dei diritti, così le politiche messe in campo nella crisi ed in particolare la gestione del debito non paiono avere altro scopo che quello di determinare la privatizzazione e mercificazione integrale di ogni sfera della riproduzione sociale. È il rovesciamento del modello sociale europeo, del costituzionalismo democratico del dopoguerra, costruitosi sulla necessità di sottrarre alla pura logica di mercato, diritti inalienabili garantiti dal ruolo pubblico, nell’intreccio costitutivo con la partecipazione popolare e l’esercizio della democrazia. Se il nesso tra l’estremismo neoliberista delle politiche di austerità e la distruzione della democrazia è fondante, altrettanto fondante della costruzione di un’alternativa deve essere la centralità della questione democratica, dell’esercizio e delle nuove declinazioni della sovranità popolare. È questo il significato profondo del referendum greco, l’alterità politica assoluta della rimessa del proprio mandato nelle mani di milioni di persone, la rottura dello spazio chiuso delle elitès governanti con l’irruzione della volontà popolare. «Che succederebbe se l’Italia o più probabilmente la Spagna di Podemos seguissero l’esempio di Tsipras?» ha scritto Rossana Rossanda. Che succederebbe se fosse possibile votare in Italia come nel resto d’Europa sulle politiche di austerità, a partire dal Fiscal Compact? Che succederebbe se invece di confinare il referendum greco nell’eccezionalità pretendessimo che diventasse la norma?

La sinistra italiana che pur ancora frammentata si è trovata ad Atene nel giorno del referendum, che ha maturato la consapevolezza della necessità di produrre un’alternativa a questa costruzione europea e alla sua declinazione in salsa italica, potrebbe e dovrebbe assumere un’iniziativa forte e continuativa su questo terreno. E se la nostra Costituzione vieta il referendum sui trattati internazionali, la possibilità che già alcuni avevano individuato di un referendum di indirizzo – attivato da una legge costituzionale di iniziativa popolare – sul modello del referendum che si tenne nel 1989, è strumento utilizzabile. Non sarebbe certo esaustivo della discussione né dell’iniziativa a livello europeo e su scala nazionale. Ma il messaggio semplice del «vogliamo votare» sull’austerità e sul futuro di tutti, terrebbe aperta tanto la denuncia dell’insostenibile carattere oligarchico del disegno altrui, quanto l’assunzione del nesso costitutivo del terreno sociale e di quello democratico nella costruzione di un’alternativa.