Ci sono almeno due circostanze importanti che vale la pena di sottolineare in relazione alla vicenda del campo rom di Castel Romano, di cui si parla in questi giorni a seguito dell’ordinanza della regione Lazio e degli interventi del Comune di Roma: due circostanze che dovrebbero indurre qualsiasi persona ragionevole, e a maggior ragione chi ha responsabilità di governo, a valutare la questione con maggior prudenza rispetto a quanto si legge in questi giorni.

Primo: il campo rom di Castel Romano non è un insediamento abusivo, ma un «Villaggio della solidarietà» predisposto, allestito e utilizzato dalle istituzioni per dare una risposta alle esigenze di un gruppo di persone con gravi difficoltà abitative (e non soltanto). Sul fatto che si tratti di una risposta insufficiente, precaria, perfino degradante per i suoi destinatari non vi sono dubbi: anzi, siamo i primi a denunciare il fatto che per quelle persone (baraccati, prima ancora che rom) debbano essere predisposte soluzioni più adeguate, che rispettino la loro dignità e offrano loro una concreta possibilità di inclusione, anziché una condizione di vita segregante che di fatto le taglia fuori dal tessuto sociale della città.

Senonché, il fatto che siano proprio le istituzioni ad “accorgersi” delle condizioni in cui versa quel luogo, come se si trattasse di una circostanza “esterna” alla propria attività anziché il frutto di politiche pluridecennali e trasversali a tutti gli schieramenti politici, è obiettivamente sorprendente: ed è la cifra di un atteggiamento cui assistiamo da lungo tempo, in base al quale da un lato si scelgono soluzioni inadeguate, e dall’altro si interviene periodicamente a denunciare, quando non a “sanzionare”, la loro inadeguatezza.

Secondo, e ancora più importante: dev’essere chiaro a qualsiasi persona ragionevole che l’idea di risolvere la situazione degradata e degradante in un campo “istituzionale” attraverso uno sgombero è intrinsecamente illogica: perché allo sgombero di un luogo predisposto e offerto dalle istituzioni, in mancanza di soluzioni alternative concrete per chi lo abita, non può che conseguire la nascita di nuovi insediamenti, stavolta “informali” e perciò inevitabilmente ancora più degradati e degradanti del precedente.

Il combinato disposto di queste due circostanze è già sufficiente, da solo, a tracciare una strada, l’unica logicamente possibile al di là dei proclami demagogici e delle consuete iniziative legate al conseguimento di un po’ di consenso: superare definitivamente la situazione dei cosiddetti “campi rom”, frutto di politiche che ormai hanno dimostrato in modo lampante la loro inefficacia, attraverso percorsi di inclusione abitativa, sociale, lavorativa e scolastica. Percorsi personalizzati e adattati alle esigenze, alle necessità, alle competenze e alle aspirazioni di ogni singolo nucleo familiare, che in altri paesi europei hanno dimostrato di poter risolvere la questione in modo concreto, costruttivo e relativamente rapido; percorsi che, contrariamente alla costruzione e alla gestione di nuovi campi, sarebbero interamente finanziabili attraverso i fondi europei e garantirebbero alle persone dignità, opportunità di vita, prospettive di lavoro e perciò di reale integrazione.

Cosa manca, dunque, per poter finalmente procedere nella direzione giusta?
Due cose. Innanzitutto il lavoro: perché elaborare e mettere in campo percorsi di inclusione, ancorché potenzialmente a costo zero, richiede tempo, competenza e fatica, mentre continuare con la strategia disastrosa seguita fino a oggi consente di andare avanti senza la necessità di alzare un dito, di avere una visione, di farsi carico dei problemi.

In secondo luogo, la rinuncia definitiva al luogo comune secondo cui gli “sgomberi” producono sicurezza, e la presa d’atto che è vero l’esatto opposto: più si sgombera senza offrire alternative, più si incrementa la marginalità delle persone e con essa l’insicurezza dell’intera comunità. Il bene dei rom, dunque, coincide perfettamente col bene di tutti gli altri, a dispetto dello schema ormai consolidato che fa di tutto (non senza un certo successo) per metterli in contrasto tra loro.

Non è un passaggio di poco conto. Perché implica la necessità da un lato di rinunciare, per il bene di tutti, a slogan elettorali facili e di pronto utilizzo: e dall’altro di rimboccarsi le maniche e di costruire soluzioni concrete, anziché fabbricare solo proclami.

In una parola, è una questione di responsabilità. Cosa di cui chi governa, a tutti i livelli, dovrebbe essere capace di armarsi tutti i giorni.
*** Marta Bonafoni (capogruppo lista civica Zingaretti al Consiglio regionale del Lazio)
Alessandro Capriccioli (capogruppo +Europa Radicali al Consiglio regionale del Lazio)
Palo Ciani (capogruppo Demos al Consiglio regionale del Lazio)