“Dio salvi la regina, la nostra ma anche la vostra regina”. “Fiore di Scozia, possiamo ancora rialzarci ed essere di nuovo la nazione che si levò contro l’esercito del fiero Edoardo”. Il fin troppo esplicativo inno dei dominatori contro l’inno dei dominati, che commemora l’insperato successo di Robert the Bruce sulle truppe di Edoardo II nel lontanissimo 1314.

Inglesi contro scozzesi, due popoli che forse non smetteranno mai di odiarsi, ma che ora non si fronteggiano più con spade e lance. La battaglia si è spostata sui campi di calcio e nelle loro vicinanze, tanto che il lungo rosario di incidenti tra le opposte tifoserie dai Settanta ai Novanta ha fatto sì che le due nazionali non giocassero contro per ben 14 anni.

Da quasi un lustro la sfida è tornata di moda. Valida per le qualificazioni Mondiali in Russia, quella di Glasgow ha un grande valore sportivo, ma è anche pregna di significati extra-calcistici, a poche ore dalle elezioni che hanno bastonato la leader dello Scottish National Party Nicola Sturgeon e i suoi sogni di un secondo referendum per l’indipendenza.

I 5mila giunti da sud del vallo di Adriano ricordano al “nemico” il risultato sfavorevole della prima consultazione popolare, subito a loro volta canzonati sulla quanto mai indigesta Brexit (nell’antica Caledonia il remain ha preso il 62 per cento).

Tuttavia non si sentono altri cori “politici”, come quelli contro l’IRA o sulla Seconda Guerra Mondiale, che la stessa federazione inglese nella settimana precedente alla gara aveva chiesto ai suoi tifosi di non cantare.

I controlli molto rigidi (che qui non sono così consueti) all’entrata di Hampden Park ci ricordano che siamo a una settimana esatta dall’atto terroristico di London Bridge. Durante il minuto di silenzio in ricordo delle vittime non vola una mosca.

Al momento degli inni, beh, è un’altra storia. Ululati a non finire a silenziare quello inglese, 50mila voci a declamare Flower of Scotland al suono sempre suggestivo delle cornamuse.

Dopo le profonde ristrutturazioni subite negli ultimi decenni, Hampden Park non è più il Maracanã d’Europa. Non ci sono più le sconfinate terrace (gradinate) dove si assieparono in 149mila nel lontano 1937. Sono state sostituite dagli immancabili seggiolini colorati che nelle curve disegnano le bandiera con la croce di Sant’Andrea.

Non è sparito però l’Hampden Roar, il ruggito del leone che è sempre stata la sua cifra distintiva. Figuriamoci contro l’auld enemy, il vecchio rivale. L’atmosfera all’interno del catino per una volta baciato dal sole è pazzesca, da altri tempi.

Qui non ci sono tifosi imborghesiti, “che vengono allo stadio solo per mangiare i tramezzini ai gamberetti”, come ebbe a dire dei fan del Manchester United il focoso Roy Keane. Un discorso che, tra regole draconiane, biglietti venduti a peso d’oro ed altri eccessi da iper-commercializzazione del prodotto football, vale per tante altre (ex?) roccaforti della passione calcistica britannica.

Ad Hampden è un florilegio di cori spontanei che coinvolgono tutti e non si fermano nemmeno per i canonici 15 minuti dell’intervallo. È un tuffo nel passato che per fortuna una crescente fetta di appassionati vorrebbe rispolverare.

La Tartan Army meriterebbe una nazionale che inanellasse una Coppa del Mondo dietro l’altra. Invece deve scendere a patti con una sfilza di giocatori mediocri, lontani anni luce dall’élite mondiale.

Il paragone storico è scontato, ma irrinunciabile.

Le due squadre sembrano la trasposizione moderna dei due eserciti che si sono fronteggiati per secoli su queste terre: uno inferiore per numero e mezzi contro l’altro potente e ben equipaggiato, che infatti trionfava. Nel calcio non è sempre stato così, anzi. Nel bilancio dei 114 incontri giocati (il primo nel 1872, in quella che fu la sfida tra nazionali più antica di sempre) i bianchi conducono sui blu solo 48 a 41. La Scozia può vantare trionfi epici, come il 3-2 a Wembley nel 1967 contri i Tre Leoni allora campioni del mondo in carica che merita un capitolo tutto suo nella storia patria.

Nell’anno di grazia 2017 sulla carta non c’è partita. I padroni di casa devono fronteggiare un’emorragia infinita di talenti. Degli eredi dei vari Souness, Dalglish e Strachan, attuale allenatore della nazionale, non si scorge nemmeno l’ombra. I loro avversari, invece, possono contare sull’ennesima Golden Generation, quella dei vari Alli, Kane, Rashford e Sterling, che a Londra e dintorni si augurano non naufraghi ai quarti dei mondiali o degli Europei come tutte le precedenti da tanti anni a questa parte.

“La Tartan Army non va a Mosca”, deridono i rivali gli inglesi, che però devono aspettare 70 minuti per esultare per il goal del vantaggio.

Giochi fatti? Macché, questa è Scozia versus Inghilterra, è più di un derby, può succedere veramente l’imponderabile, Davide può davvero annientare Golia.

E così fra l’88esimo e il 90esimo il centravanti del Celtic Leigh Griffiths calcia due punizioni dalla stessa mattonella e ne infila una alla sinistra e un’altra alla destra dell’estremo difensore inglese. Hampden esplode come una gigantesca Santa Barbara.

Il colpo di coda dei dominatori è immancabile e crudele, però. Kane, capitano al posto dell’ormai pensionato Rooney, esce dal letargo e trova il 2-2 a una manciata di secondi dal fischio finale. Sugli spalti si piange e si maledice la regina.

Per la vittoria contro il vecchio nemico, che manca da quasi 20 anni, bisognerà aspettare ancora.