Ancora agitate le strade albanesi. A poche settimane dalla protesta studentesca una nuova massa di corpi si è raccolta sotto gli uffici del primo ministro. I manifestanti hanno infranto il cordone della polizia, tirato sassi e petardi e raggiunto a spintoni le porte del palazzo governativo dove hanno provato a forzare l’entrata.

C’erano soprattutto uomini nelle prime file. Ragazzi in tuta, ma anche molti over 50, capelli bianchi e giacche fuori moda, che esibivano alle telecamere il dito indice e medio alzati, mimando lo storico segno della vittoria.

Le immagini della rivolta comunicano una forte radicalità, ma la composizione che la anima risponde a una precisa indicazione politica. La giornata di scontri è stata infatti convocata dal partito di opposizione, Partia Demokratike, la destra parlamentare albanese. Sono in maggioranza proprio supporter del partito fondato da Sali Berisha e oggi guidato da Lulzim Basha, quelli giunti a Tirana da tutte le regioni del paese, con una disponibilità allo scontro e un obiettivo non negoziabile: le dimissioni del primo ministro Edi Rama e l’indizione di nuove elezioni.

D’altronde nell’acerba e traballante democrazia albanese non è raro che delle forze parlamentari ricorrano allo scontro di piazza. Appena otto anni fa nel 2011 era avvenuto lo stesso a parti invertite. Il Partito socialista, allora guida dell’opposizione, aveva convocato una manifestazione sfociata in una giornata di scontri e conclusasi tragicamente con quattro morti.

Ieri il premier Rama, mentre la rabbia dei manifestanti si abbatteva sui vetri del palazzo di governo, era a Valona per un evento in piazza e parlava a una folla oceanica, in questo caso però rigorosamente seduta. Una scelta non casuale e un assist ai media che non hanno esitato a comparare, fin troppo prosaicamente, le due piazze, quella violenta a Tirana e quella civile a Valona.

Le forze dell’opposizione ieri in piazza hanno senza dubbio mostrato il loro potere destabilizzante, riuscendo nella sfida di mobilitare il proprio blocco sociale, espressione soprattutto dell’Albania rurale e meno scolarizzata, e dando spazio anche alla rabbia delle fasce più povere della  popolazione. Tuttavia ciò che rende davvero precaria la tenuta del governo, riconfermato nel 2017 e forte di una salda maggioranza in aula, è soprattutto il malcontento della sua stessa base elettorale.

L’èlite albanese, colta e cosmopolita, sembra tollerare sempre meno il leaderismo sfrenato e la real politik del premier. Ma soprattutto le nuove generazioni, i figli del ceto medio urbano albanese fondamentali in passato per l’elezione di Rama, si mostrano sempre più esasperate.

Giocano un ruolo le condizioni sociali e la mancanza endemica di opportunità, ma anche la disaffezione verso una politica ritenuta cinica, determinata dalle condizioni imposte dall’Ue e dagli interessi degli oligarchi albanesi, spesso collusi con la malavita.

La stabilità dell’Albania è importante per gli equilibri geopolitici europei, trovandosi il paese proprio al confine tra le influenze atlantiche, russe e mediorientali. Le proteste di ieri hanno visto la pronta condanna di Ue e Ocse, istituzioni che sembrano offrire ancora una sponda a Rama, che con il suo comizio affollato e composto sembra aver ammiccato proprio a questo consenso.

Le istituzioni internazionali premono affinché il parlamento albanese approvi la lungamente attesa riforma del sistema giudiziario, che se realizzata minerebbe la pratica consolidata delle ingerenze politiche sulla magistratura. Quanto riuscirà la classe politica di entrambe le fazioni a ritardare la resa dei conti sul fronte giudiziario? Quanto Rama potrà reggere tra i fuochi del malcontento? Il futuro è incerto. Intanto le opposizioni si sono riconvocate per giovedì prossimo a Tirana.