Verso la fine del 1920 (16 novembre) uno sconosciuto ragioniere genovese (si chiamava Eugenio Montale) ebbe l’occasione di scrivere il suo primo articolo sul giornale «L’Azione», nuova voce della borghesia intellettuale della sua città; per argomento scelse di recensire un recente libro di prose liriche, Trucioli, scritto da un poeta ligure (si chiamava Camillo Sbarbaro) piuttosto noto per aver pubblicato nel 1914 la raccolta di versi Pianissimo per le edizioni della più prestigiosa rivista italiana, la fiorentina «La Voce». I due non avevano molto in comune; Montale, formatosi su studi tecnici, sognava di diventare un cantante lirico e, scoperta da autodidatta la fascinazione della poesia, aveva cominciato a scrivere versi vivendo in una famiglia agiata tra la nativa Genova e Monterosso, mentre Sbarbaro, nato e cresciuto in cittadine della Liguria e giunto nella poco più grande Savona per frequentarvi il liceo classico, quando nel 1911 si trasferì a Genova come impiegato dall’Ilva, della grande città conobbe la freddezza e le tentazioni notturne: «Esco dalla lussuria. / M’incammino / per lastrici sonori nella notte».

Dopo la guerra i due si incontravano qualche volta in galleria Mazzini nel caffè Diana degli antidannunziani dove Montale, quando conobbe Sbarbaro, esclamò: «Un giovane, ma tra noi correvano otto anni e questo mi riempì di soggezione». Nella vivace e affollata Genova letteraria di allora Sbarbaro era il personaggio di maggiore spicco e forse per questo Montale al suo debutto su «L’Azione» si occupò proprio di lui con una recensione che però non rivelava soggezione nei confronti di «questo sbandato poeta nostro» e definiva «bizzarri» i suoi Trucioli.

Di lì a poco le loro strade si sarebbero divise per sempre e se quegli incontri epidermici in Galleria lasciarono qualche traccia negli Ossi di seppia (dove una sezione reca il titolo Versi a Camillo Sbarbaro, definito in un epigramma «estroso fanciullo»), al momento della sua scomparsa ispirarono a Montale un Ricordo di Sbarbaro (Corriere della Sera, 5 novembre 1963) freddino e perfino un po’ irridente quando, nel ricordare che la strada nella quale abitava (via Montaldo) conduce al cimitero di Staglieno, lo definì un «collezionista di funerali». Ma ormai la sorte aveva decisamente capovolto la situazione iniziale, facendo di Montale il più famoso poeta italiano e di Sbarbaro un poeta noto e amato da alcuni attenti studiosi e da appassionati lettori, ma ai più sconosciuto come risulta da quel termometro spesso deprimente, ma inconfutabile, che sono le antologie scolastiche dove le pagine dedicate a Sbarbaro erano (e sono) piuttosto poche e le sue poesie hanno ben poca notorietà in rapporto alle loro qualità.

Eppure egli è stato il poeta che per primo ha saputo rendere in versi taglienti e definitivi il malessere esistenziale della vita nelle nascenti grandi città, dove gli uomini «camminano come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è. / La vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca». In questi pochi versi (1913) è già racchiuso il senso di quella incomunicabilità propria, anche e soprattutto nel Novecento del boom economico e da allora a oggi, delle città dell’apparente benessere, che invece distribuiscono quel «male di vivere» del quale Montale, un decennio più tardi di Sbarbaro, si sarebbe anch’egli fatto interprete negli Ossi di seppia.

Nonostante Sbarbaro abbia avuto e abbia notorietà inferiore ai suoi meriti (la sua scelta di vita appartata e il suo carattere schivo e schietto non lo hanno certo aiutato), egli ha avuto tuttavia attenzioni costanti da parte di critici sensibili già dopo la sua scomparsa (1967), quando gli amici della rivista «Resine» (e Adriano Guerrini e Domenico Astengo su tutti) nel 1973 gli dedicarono un ben articolato convegno di studi nella cittadina di Spotorno, dove il poeta visse i suoi ultimi anni.

Da allora gli studi sulla sua opera non si sono fermati e la ricorrenza del cinquantenario della morte li ha ulteriormente incrementati, come nel convegno svoltosi ancora a Spotorno nei primi due giorni di dicembre del 2017, i cui atti, a cura di Pier Luigi Ferro e Stefano Verdino, sono stati ora pubblicati nelle edizioni San Marco dei Giustiniani: Sbarbaro e gli altri (pp. 256, € 28,00). Le relazioni ricostruiscono compiutamente i rapporti, umani e culturali, da lui intrattenuti con poeti del suo tempo: dal compagno di liceo Angelo Barile all’eccentrico Pierangelo Baratono, e poi ancora con i vociani e Dino Campana, con Boine, Montale, Caproni e altri ancora, dando vita a un ricco mosaico di informazioni e di riflessioni che aiutano a delineare sempre meglio l’importanza di Sbarbaro e a farlo finalmente uscire da quel limbo immeritato dei «minori» nel quale a lungo e da molti è stato confinato.