Se nelle vicende umane risulta spesso vero l’adagio secondo il quale la realtà è superiore alla più fervida immaginazione, sia nel caso di piacevoli sorprese quanto invece di situazioni amare e strazianti di cui non vorremmo mai essere spettatori, la narrazione – intesa nel senso antropologicamente più ampio cui possiamo inscrivere anche l’opera d’arte visiva – mai come nell’ultimo ventennio si è intensamente composta mescolando vorticosamente due modalità espressive difformi che possiamo essenzialmente ricondurre alla finzione e alla realtà. Se la prima è il frutto di un atto di creazione autoriale o di elaborazione fantastica, anche verisimile, la cui esistenza è prettamente vincolata alla funzione espressiva (si pensi a un olio su tela o a un film in cui i personaggi recitano), la seconda è originata invece da un prelievo, da un ritaglio successivamente impiegato in un contesto differente, come ad esempio una scultura che impiega degli objet trouvé quali un giornale o una scarpa, oppure il video di un compleanno o di un servizio giornalistico.
È proprio su questa combinazione di elementi che è basata molta della pratica artistica della messicana Teresa Margolles, cui la Tenuta Dello Scompiglio, a Capannori (LU) fino al 16 settembre, dedica una densa e problematica mostra, a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia. Sobre la sangre è un progetto che nasce per denunciare la continua violenza e gli omicidi impuniti di cui sono vittime le persone socialmente più deboli – quali le donne e i membri delle minoranze sessuali in America Latina – e che fa vedere allo spettatore in maniera immediata gli effetti di tali brutalità, mostrandone direttamente gli effetti grazie a dei veri e propri prelievi oggettuali dai luoghi in cui tali crimini sono compiuti o dagli obitori in cui i corpi senza vita sono stati ospitati.
Il visitatore della mostra si imbatte nella prima opera, collocata nelle vicinanze dello spazio espositivo, in maniera del tutto casuale: è una coperta apparentemente di nessun significatio, collocata su una struttura a tenda simile a quelle che vediamo nelle bancarelle del mercato. È solo la didascalia a permettere di capire che non si tratta di un semplice riparo per il sole quanto invece dell’opera Frazada, realizzata con una coperta che è stata impiegata per avvolgere una donna vittima di un femminicidio avvenuto in Bolivia. Chi guarda è messo così nella consapevolezza della realtà di quel manufatto, del suo carico di violenza, del suo odore pungente, solo grazie al dispositivo informativo della didascalia, quasi un monito a non fidarsi completamente di ciò che gli occhi vedono, spingendo a ricercare invece tutte le informazioni necessarie per leggere i fatti di cui siamo osservatori.
Gli interrati della Tenuta dello Scompiglio ospitano nella semioscurità un’opera di grande impatto, collocata su di un tavolo retroilluminato all’interno di un tunnel buio. Sul piano è collocata una lunga striscia di tessuto di una dozzina di metri, Sobre la sangre, ricamata finemente da alcune donne boliviane con fiori, paillettes, perline e fili dai colori sgargianti. Sembrerebbe a prima vista un’opera di notevole artigianato etnico se quelle lenzuola non fossero state invece impiegate per pulire i corpi di donne vittime di violenza, come a una visione più dettagliata si coglie nelle numerose tracce ematiche. Così, se da un lato è impossibile non cogliere un parallelo con il sudario dentro al quale secondo la tradizione Cristo venne avvolto, dall’altro quei drappi pregni di sangue veri e reali di donne assassinate ci mettono nella condizione di essere diretti testimoni di ciò che accade. Non è possibile girare la testa dall’altra parte, dire di non aver visto di persona: il documento, il prelievo di realtà (naturalmente accettando l’onestà intellettuale della Margolles), ci colloca nella condizione di avere assistito alla brutalità della morte in forma barbara, come anche avviene nei successivi tunnel in cui si dirama lo spazio espositivo, dono vengono presentate le foto di due prostitute transessuali uccise senza alcun razionale motivo e i racconti dei loro amici più vicini.
Con Sabra la sangre, come con molte altre opere precedenti, caratterizzate da un inossidabile impegno civile in cui l’artista denuncia le condizioni sociali, politiche e economiche che producono violenza e sopraffazione (come ad esempio De qué otra cosa podríamos hablar? con cui ha rappresentato il Messico alla Biennale di Venezia del 2009 mostrando i teli delle vittime dei narcotrafficanti e i loro familiari impegnati a pulire il pavimento con sale e residui ematici delle vittime), l’artista costruisce un dispositivo diegetico in cui il racconto mescola la stessa realtà con la narrazione del fatto violento. Al fruitore è così assegnato il ruolo centrale di testimone, di colui che viene informato e non può più quindi dire di non sapere; all’opera quello di reliquia documentale, emotivamente carica delle bassezze del mondo che mai vorremmo conoscere, ma che si dipana, straziante, sotto i nostri occhi impotenti