In El Salvador, diceva l’arcivescovo Oscar Romero, la giustizia è come il serpente: morde solo chi è scalzo. Ma ancor di più, si può dire, chi è scalza. Chi è donna, povera, molte volte adolescente, condannata per omicidio aggravato in caso di aborto – spesso spontaneo -, anche se ha subito violenza o la sua vita era in pericolo.

È allora un caso di ordinaria tragedia quello della sentenza con cui un tribunale di San Salvador ha respinto la richiesta di annullamento della condanna a 30 anni di prigione per Teodora Vásquez, già in carcere dal 2007 con l’accusa di aver interrotto la gravidanza, in un Paese in cui l’aborto è proibito senza alcuna eccezione.

Un Paese in cui, tra il 2005 e il 2008, si sono registrati 19.290 aborti clandestini, spesso effettuati con i metodi più cruenti, compreso l’uso di ferri da calza. In cui, nel 2016, di fronte alla proposta presentata al congresso dal governo del Fronte Farabundo Martí di depenalizzare l’aborto nei casi di pericolo di vita per la madre, di violenza sessuale e di malformazione del feto, l’opposizione non solo ha votato contro, ma ha chiesto, al contrario, un inasprimento della pena fino a 50 anni di carcere.

Già nel 2016 Amnesty International aveva raccolto 250mila firme a favore della liberazione di Teodora, la quale, peraltro, ha sempre sostenuto di aver avuto un aborto spontaneo nel bagno di una scuola in cui lavorava come domestica. «Non mi è mai passata per la mente l’idea di abortire», ha dichiarato la donna, assicurando di aver chiamato più volte e inutilmente il pronto soccorso.