Se si cercano riferimenti a Alfonso Reyes nei testi e nelle interviste dei principali intellettuali ispanoamericani del ‘900 – Octavio Paz, Carlos Fuentes, Carlos Monsivàis, Elena Poniatowska, Jorge Luis Borges – lo si trova trattato con il rispetto dovuto a un padre spirituale, anche se nessuno ne può essere considerato il continuatore o il discepolo, forse perché il mondo che forniva nutrimento spirituale al vecchio maestro è scomparso definitivamente insieme a lui, dopo la seconda guerra mondiale.

Critico letterario, poeta, classicista, erudito senza specializzazione né eccessivo amore per l’accademia, Reys fu anche cronista di costumbres, diplomatico, ma soprattutto saggista e padrone di una prosa raffinata in un ambito culturale dove la saggistica non è ne qualitativamente né quantitativamente rilevante. A lungo Reyes è stato considerato una sorta di patriarca della cultura latinoamericana, un padre della patria dalla parte della frangia liberale della rivoluzione messicana; ma, benché tutti lo conoscano, è stato letto da una minoranza molto acculturata, e solo parzialmente, data la mole dei suoi scritti. Ora la pubblicazione della antologia dei testi titolata La regione più trasparente dell’aria (curata da Stefano Tedeschi, che l’ha tradotta insieme a Alessia Melis, Quodlibet, pp. 320, € 22,00) corre il rischio – osserva Tedeschi nella sua utilissima introduzione – di presentare una selezione necessariamente troppo ridotta di un’opera sterminata, estesa a ventisei volumi; che tuttavia ha il vantaggio di rendere fin dall’inizio l’idea della vastità di interessi e talenti di quest’uomo, simbolo della rinascita culturale ispano-americana nella prima metà del ventesimo secolo.

Diversi scritti vengono dunque ordinati tra quelli che l’instancabile Reyes produsse in mezzo secolo di attività in Messico, America latina ed Europa, a cominciare dalla celebre Visione di Anàhuac, una descrizione mitizzante della capitale azteca, la regione più trasparente, appunto; e continua con una efficace requisitoria – la Palinodia della polvere – contro le distruzioni portate dalla conquista e dalla colonizzazione europea: «Cosa ne avete fatto, allora, della mia alta valle metafisica? Perché si appanna, perché ingiallisce? Corrono su di lei come fuochi fatui i mulinelli di terra. Prosciugatori di laghi, tagliatori di boschi! Strozzatori di polmoni, frantumatori di specchi magici!».

Lungi dall’essere un anti-europeo, Reyes ebbe anzi una visione universalista ancorata all’illuminismo e a filosofi come Montaigne e von Humboldt, coltivata in lunghi e produttivi soggiorni nelle sedi diplomatiche di Madrid e di Parigi: quella prospettiva che gli fece piuttosto sposare un europeismo acritico destinato a subire i conseguenti biasimi dell’ampia schiera degli indigenisti messicani.

Ma è nella successiva sezione del volume, in testi quali «Il dialogo d’America», «Note sull’intelligenza americana», «Valore della letteratura ispanoamericana», «Riflessioni sul carattere messicano», che si trovano gli aspetti più significativi e in larga misura ancora validi del pensiero di Reyes, espressi in domande e riflessioni sulla complessità storico-culturale di paesi e popolazioni risultati da varie mescolanze etniche, avvenute nei secoli della modernità. Nello scenario latinoamericano, ai popoli autoctoni si sarebbero aggiunti successivamente i colonizzatori spagnoli e portoghesi, i discendenti degli schiavi africani, gli immigrati europei fra fine Ottocento e inizio Novecento. Questo complesso mondo, con i conflitti e i rapporti cui ha dato luogo e che nella visione di Reyes appare come un estremo occidente, è stato studiato da angolazioni diverse a seconda degli accenti ideologici in campo, non sempre approdando a un dialogo produttivo. Malgrado fosse evidente quale profondo senso di appartenenza americana e messicana riguardasse Alfonso Reyes, è tuttavia palese come misurasse con il parametro della civiltà greco-latina e dello sviluppo nei secoli della cultura europea i valori delle regioni periferiche americane via via incorporate, trovando un’espressione poetica per sottolinearne i distinguo: «Il nostro dramma possiede una scena, un coro e un personaggio; per scena non intendo ora uno spazio, ma piuttosto un tempo, un tempo nel senso quasi materiale della parola, un’armonia, un ritmo.
Arrivata tardi al banchetto della civiltà europea, l’America vive saltando tappe, accelerando il passo e correndo da una forma a un’altra, senza aver avuto il tempo di maturare del tutto la forma precedente. La tradizione ha pesato meno, e questo spiega l’audacia. Questo è il segreto della nostra storia, della nostra politica, della nostra vita governata dalla parola d’ordine “Improvvisazione”».
Ecco la crepa che offusca il pieno dominio culturale europeo: Reyes la chiama «intelligenza americana», uno specifico modo di essere, verificabile fin dalle origini dell’incontro-scontro fra indigeni ed europei e testimoniato dai testi letterari di epoca coloniale. Questa dialettica tra due enormi civiltà che danno vita a una terza del tutto nuova definisce i contenuti storici di una vita culturale al centro di gravità delle riflessioni di Reyes, senza dimenticare la comparsa in scena del canto sempre più stridente delle sirene nordamericane, che già ai tempi suoi preannunciavano l’attuale egemonia imperiale.

Le importanti questioni relative all’ «obbligo d’improvvisazione» e alla «difficoltà di specializzazione», intese quasi come tratto caratteristico del lavoro culturale latinoamericano, vengono spiegate con ragioni di tipo materiale: raramente gli uomini di cultura possono dedicarsi solo a pensare e a scrivere, quindi devono affrontare un rapporto più diretto e vincolato con la vita sociale ed economica che ne condiziona l’attività, e allo stesso tempo ne arricchisce l’espressione. «Ho il presentimento che l’intelligenza americana sia chiamata a svolgere la più nobile funzione complementare, quella di dover stabilire sintesi, sebbene siano necessariamente transitorie, quella di dover applicare rapidamente i risultati, verificando il valore della teoria nel vivo dell’azione. Proseguendo per questa strada, se l’economia dell’Europa ormai ha bisogno di noi (era in corso la seconda guerra mondiale), finirà per aver bisogno di noi anche la stessa intelligenza dell’Europa». Senza dubbio è «la bella armonia» il principio sul quale si regge il programma politico-culturale di Reyes, che ha in genere evitato di approfondire gli aspetti più conflittuali, non solo le luci ma anche le ombre dell’impresa coloniale spagnola. Da questo angolo visuale, ne sentiamo oggi la voce come molto vicina e allo stesso tempo incommensurabilmente lontana.

Altri capitoli dell’antologia italiana riguardano i suoi studi sui classici greco-latini e sulla modernità nella letteratura e la pittura del primo Novecento europeo; monografie su diversi autori, Graciàn, Borges, Goethe e uno straordinario testo su Juana Inés de la Cruz. Chiudono il volume alcuni saporiti articoli di costume e di viaggi, e per il godimento dei più, un testo dedicato al romanzo poliziesco, di cui Reyes era un entusiasta cultore; del resto, durante il suo soggiorno a Madrid, lo scrittore messicano fu, in compagnia di Borges, il primo critico cinematografico in lingua spagnola, a scrivere su riviste messicane e spagnole.