Jeff Sessions, attorney general – il ministro della giustizia – degli Stati uniti è sotto il fuoco incrociato di media, democratici e perfino repubblicani.

IL SUO ERRORE è stato quello di mentire: nell’audizione al Senato per la sua nomina avrebbe sostenuto, sotto giuramento, di non aver avuto alcun rapporto con Mosca durante la campagna elettorale. Invece, secondo una ricostruzione fornita dal Washington Post, Session avrebbe avuto ben due incontri con l’ambasciatore russo a Washington. Su Trump i media americani da tempo insistono sui sospetti del famoso «aiutino» degli hacker russi per la vittoria elettorale; ecco dunque che Session rischia il posto.

Le accuse del Wapo non sembrano campate in aria se è vero che l’entourage di Sessions ha provveduto a una parziale marcia indietro rispetto al diniego dei fatti. Il problema è che il ministro della giustizia attualmente dovrebbe anche essere a capo proprio dell’indagine sull’ingerenza russa nelle elezioni americane.

UN PASTICCIO di fronte al quale Sessions ha detto di essere pronto a fare un passo indietro, ad esempio rinunciare a guidare le indagini, mentre un po’ tutti ieri ne hanno chiesto le dimissioni. L’amministrazione Trump inciampa dunque ancora una volta su Sergey Kislyak, ambasciatore russo negli Usa, diplomatico di lungo corso, da nove anni in ambasciata, con la fama di aver girovagato tra incarichi prestigiosi al ministero degli esteri russi (fin dai tempi di Gorbachev) senza mai esserne stato il leader. Un uomo sospettato, naturalmente, di essere una spia o un reclutatore di spie.

LA STAMPA AMERICANA sembra avere ormai inaugurato una sorta di nuova serie: mentre il proprio presidente accontenta i militari con aumenti spropositati del budget, si continua a cercare questa «Russian connection» tra gli uomini di Trump; un ostacolo che ha già sbarrato la strada all’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Michael Flynn.

NEL CASO DI SESSIONS poi, sarebbe bene ricordare di che tipo di personaggio stiamo parlando. Accusato di razzismo in piena epoca reaganiana, quando era procuratore generale in Georgia, ha dovuto affrontare diversi scandali legati alle proprie opinioni in tema di diritti civili: tutti eventi e gaffe clamorose che già avrebbero dovuto impedire la sua nomina a ministro della giustizia. Ma ora l’unica possibilità è trovare un motivo per le sue dimissioni. E a spingere in questo senso, nelle ultime ore, sono stati un po’ tutti.

DOPO I DEMOCRATICI, anche il Partito repubblicano ha reagito alla notizia degli incontri tra Jeff Sessions  e l’ambasciatore russo a Washington, Sergey Kislyak, nei mesi precedenti le elezioni presidenziali.

Due importanti esponenti repubblicani della Camera, il leader della maggioranza Kevin McCarthy e il deputato dello Utah, Jason Chaffetz, chiedono a Sessions di «ricusare» se stesso e astenersi dal supervisionare, nel suo ruolo di attorney general, l’inchiesta dell’Fbi sui contatti tra la campagna di Donald Trump ed esponenti russi.

Sessions «deve chiarire» come mai ha omesso davanti al Senato gli incontri con l’ambasciatore russo e deve rinunciare al suo ruolo di supervisore dell’inchiesta in corso, ha detto McCarthy in un’intervista alla rete Msnbc.

Dello stesso tenore le parole di Chaffetz, che presiede l’influente Commissione investigativa della Camera, che su Twitter ha scritto che «Sessions deve chiarire la sua testimonianza e ricusare se stesso». Finora, l’Amministrazione Trump ha respinto gli attacchi dei democratici, che ne chiedono le dimissioni. In un intervento in mattinata a Nbc News, lo stesso Session aveva negato di aver discusso con l’ambasciatore russo questioni riguardanti la campagna elettorale, definendo «false» le accuse che gli vengono lanciate.