Fuochi, barricate, molotov, cariche, pestaggi, lacrimogeni e blindati lanciati a tutta velocità sulla folla. La politica irrompe prepotentemente nel calcio, e impone il rinvio del clásico: la partitissima tra Barcellona e Real Madrid, inizialmente prevista al Camp Nou per il 26 ottobre, si giocherà il 7 o il 18 dicembre. Anche se la Liga spinge per mercoledì 4 dicembre. Entro lunedì, la decisione sulla data.

Passata nemmeno una settimana dalle esultanze militarti dei calciatori turchi, quando dirigenti, editorialisti e affaristi del pallone avevano rilanciato il loro mantra: «La politica deve rimanere fuori dal calcio», le sentenze del procés catalano hanno nuovamente squarciato il velo dell’ipocrisia. Il calcio è politica. Perché da un secolo e mezzo è uno dei principali apparati ideologici dell’industria culturale, e ha servito e sostenuto molteplici dittature, dal fascismo italiano alla junta militar argentina, per dirne solo due. Perché è stato contropotere partigiano e anticolonialista, e ha permesso la creazione di comunità autonome intorno a determinate squadre. Il calcio è politica perché ha fermato per un giorno la guerra tra tedeschi e inglesi nel 1914, e ne ha fatte iniziare molte altre, dal conflitto tra El Salvador e Honduras a quello tra Serbia e Croazia. Figuriamoci in Spagna, dove dai tempi della Guerra Civile gli azulgrana del Barcellona rappresentano la resistenza alla macelleria del caudillo Francisco Franco, che sostiene i fedeli blancos del Real Madrid. E per farlo arriva a far ammazzare un presidente della squadra rivale, o a dirottare l’acquisto della saeta rubia Alfredo Di Stefano dal Barça alle sue amate merengues, che vincono cinque Coppe dei Campioni. Chi gravita intorno alle due squadre è stato forgiato dalla storia oltre che dal rettangolo di gioco.

Non solo chi tifa Barcellona è generalmente di sinistra, antifranchista e indipendentista, da qui le bandiere della squadra che svettano nei cortei, e chi ama il Real è spesso di destra e nazionalista. Anche giocatori, allenatori e dirigenti sono coinvolti. Se restano indimenticabili negli anni gli scazzi tra i due capitani, l’indipendentista Gerard Piqué contro il monarchico Sergio Ramos, o la nazionale catalana dove giocava convinto mezzo Barça, oggi anche il club azulgrana si è schierato e in un comunicato ufficiale ha scritto «la prigione non è la soluzione». Per non parlare del video di Pep Guardiola, che giorni fa a nome della piattaforma Tsunami Democràtic ha parlato di «deriva autoritaria della Spagna» e ha definito gli arresti «un attacco ai diritti». E ieri nella conferenza stampa di presentazione della partita del City, dove allena ora, ha ribadito il tutto. Ma è anche vero che calcio e politica sono pieni di sfumature e contraddizioni. Non solo il Barcellona non ha mai fatto capitano un indipendentista convinto, fino al punto di rifiutare la nazionale spagnola, come Oleguer: troppo schierato a favore dei movimenti di lotta per la casa. Ma da oramai una ventina di anni Real e Barça vanno a braccetto a ogni riunione dei potenti del calcio. Rappresentano due imperi simili, sono primo e secondo per fatturato nella Deloitte Football 2019, sempre pronti ad allearsi tra loro per spartirsi i diritti televisivi e i giocatori migliori. Alla faccia delle altre squadre. Per non parlare dell’ambiguità dello stesso Futbol Club Barcelona, da una parte quell’aura mistica di «esercito simbolico e disarmato della Catalogna», come scrisse Manuel Vázquez Montalbán, dall’altra chi si definisce més que un club e poi è in affari con satrapie mediorientali, stringe accordi con istituti di credito tossici come Bankia e schiaccia con prepotenza ogni squadra o calciatore che cerca di emanciparsi dal potere della diarchia calcistica spagnola.

Se nessuna squadra o partita è mai stata innocente, il clásico tra Barcellona e Real Madrid, con il suo portato storico ed economico – si stima raggiunga un’audience televisiva di quasi un miliardo di persone in oltre centottanta paesi – lo è ancora di meno.

Per questo la protesta che in questi giorni invade la città inevitabilmente si riflette sul gioco pallone: perché da centocinquant’anni il calcio non è nient’altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi.