Commerciante e collezionista di libri antichi, editore e commentatore radiofonico, Rick Gekoski, nato e cresciuto negli Stati Uniti, cittadino britannico dal 2008, ha pubblicato il suo primo romanzo, Darke, nel 2017, all’età di settantadue anni, sorprendendo la critica con un insospettato talento narrativo, e con l’innegabile qualità della sua scrittura, sino a quel momento messa a frutto soltanto in ambito saggistico. All’opera prima ha fatto seguito, un anno dopo, A Long Island Story, un romanzo autobiografico, che ora esce in Italia per Bompiani (traduzione di Andrea Asioli, pp. 335, € 20,00) dove si raccontano, sotto mentite spoglie, le vicende dell’autore e della sua famiglia, costretti nel 1954 a trasferirsi a Long Island per sfuggire, in quanto famiglia ebrea di sinistra, alla politica di McCarthy.

Classico e lineare nei toni, l’intreccio è ben costruito, e privo di tentazioni sperimentaliste: l’intera vicenda si svolge nell’estate del 1953, quando Ben, il protagonista maschile, dietro cui si nasconde il padre di Gekoski, finito nel mirino di McCarthy per i suoi trascorsi di simpatizzante comunista, sta per prendere, contro la volontà della moglie, Addie, e dei figli, una difficile decisione. Intende lasciare il proprio impiego come avvocato al Dipartimento di stato di Washington e trasferirsi a Huntington, Long Island, dove vivono i suoi cognati e dove i suoceri possiedono un bungalow in cui ospitano d’estate la figlia e la sua famiglia.

L’azione si apre proprio al momento della partenza per le vacanze, e si snoda secondo il tipico rituale delle villeggiature borghesi – non solo americane – anni Cinquanta: la moglie resta al mare per tutta la stagione insieme ai bambini, mentre il marito, dopo avere scaricato la famiglia, rientra in città.
Altrettanto tipici, riconoscibili in ogni tempo e a ogni latitudine, sono gli incidenti, le contrarietà, i malumori che punteggiano la vicenda: profonde antipatie tra cognate; divergenze tra madre e figlia e tra nonno e nonna sull’educazione dei nipoti; gelosie tra fratelli; bizze e marachelle dei bambini per attirare l’attenzione degli adulti; insoddisfazione della giovane madre, laureata di belle speranze, con scarsissimo o nullo senso materno, costretta a passare il suo tempo con i bambini in un luogo che detesta; frustrazione del marito che, per arrivare a fine mese e permetterle tutti i comfort cui è abituata, è obbligato ad accettare regolarmente soldi dal suocero. Per movimentare la storia, Gekoski attribuisce a Ben una relazione extraconiugale e al suocero traffici con la mafia, salvo poi specificare, nella nota finale in cui ammette di aver romanzato episodi della propria infanzia, che «a differenza di quanto si legge nel libro, mio padre non ha avuto un’amante. E mio nonno non era il (simpatico) traffichino da me descritto».

Fare della propria infanzia un’opera di finzione, sospesa tra autobiografia mancata e prossimità ambigua alla realtà descrive i limiti del romanzo: gli eventi storici che avrebbero potuto dare una svolta drammatica alla vicenda (il maccartismo, l’epidemia di poliomielite) restano sullo sfondo, come minacce che spaventano i personaggi senza tuttavia scalfirli; ma al tempo stesso l’autore è troppo immerso nella storia per prenderne le distanze. Se invece di immedesimarsi nei suoi genitori e nei nonni, Gekoski avesse provato a ritrovare la voce di sé stesso bambino, questa storia familiare, così comune, al di là del tempo e dello spazio, filtrata attraverso lo sguardo di chi ancora non è in grado di comprendere in pieno quel che sta accadendo, avrebbe acquistato una particolarità unica.

Narrata per lo più attraverso i dialoghi e il discorso indiretto libero degli adulti, appare invece una vicenda banale, sempre in bilico tra quanto sembra stare per accadere – un evento tragico, una separazione, una lite, un tracollo finanziario – e l’approdo al compromesso, che non è precisamente ciò che mette il sale nella vita.