Ultimi preparativi, ultimi colloqui, ultimi consigli. Domani Giorgio Napolitano abbandonerà il Quirinale dopo quasi nove anni. Nell’arco di 15 giorni verrà indicata la platea che dovrà eleggere il suo successore e giovedì 29 gennaio, a Montecitorio, partirà la giostra. Fino a quel momento a fare le veci di primo cittadino sarà il presidente del Senato Pietro Grasso.

L’imminente addio non significa che Napolitano si disinteressi a quel che succede nello Stato di cui da domani non sarà più capo. Ieri ha ricevuto non solo Matteo Renzi, ma anche la ministra delle Riforme Boschi: segno evidente che al quasi ex presidente non sfugge affatto la delicatezza del momento. Infatti, pur informandosi per lungo e per largo sulla manifestazione di Parigi e sull’accoglienza riservata al premier dai potenti d’Europa, ha ribadito l’urgenza di risolvere rapidamente il rebus del Colle. Incartarsi sarebbe grave nel quadro italiano, esiziale in quello europeo. Renzi lo sa da solo e diffonde di conseguenza rassicurazioni a piene mani. «Il nuovo capo dello Stato – ripete – sarà eletto entro il primo febbraio». Cioè in quella già famosa quarta votazione che è la linea del Piave del Nazareno. Parole tranquillizzanti condite però nelle ultime 48 ore con una minaccia tanto assurda da rendere per intero il senso delle preoccupazioni che in realtà albergano a palazzo Chigi: non eleggere in tempi brevi il capo dello Stato significherebbe porre fine alla legislatura.

E’ una minaccia destituita di fondamento. La Costituzione non prevede il congelamento delle elezioni del presidente per dar tempo a Renzi di imporre il voto politico, e una volta eletto il nuovo presidente la corsa alle urne sarà più o meno impossibile. Se Renzi torna ad agitare lo spettro dello scioglimento delle camere è perché sente il terreno mancargli sotto i piedi. In parte è colpa dei sondaggi: 13 punti persi nel giro di 4 mesi con una precipitazione al 33% nell’indice di gradimento. In parte anche maggiore dipende dalle grane che minacciano di esplodere nei prossimi giorni sul fronte nevralgico della legge elettorale, con immediata ricaduta su quello ancor più delicato della corsa al Colle. Non a caso ieri il fiorentino ha tentato per l’ennesima volta di convincere Napolitano a rinviare di una settimana le dimissioni. Una mossa tanto disperata, dopo che le dimissioni erano state di fatto annunciate per domani, quanto inutile. Il diniego del dimissionario è rimasto fermissimo.

Il punto dolente, tanto per cambiare, è la minoranza Pd, che sul capitolo delle preferenze, per una volta, pare deciso a tenere duro. Certo, non è un aspetto a cui la corrispondente minoranza azzurra dia molta importanza, ma il rischio che, pur di affibbiare un colpo a re Silvio e alla sua sgangherata corte, Fitto e i suoi ribelli si schierino con le preferenze ci sta tutto. A quel punto sarebbero guai grossi. Per Berlusconi le preferenze restano infatti inaccettabili e un incidente diplomatico di tale portata renderebbe la già difficile sfida per chiudere la partita del Quirinale di corsa quasi proibitiva. La via d’uscita principale sarebbe costringere i ribelli Pd a un’ennesima resa. Il segretario-premier ci sta provando, un po’ trattando sul nome del presidente, un po’ minacciando la crisi. Ma anche in questo caso l’arma è spuntata: vorrebbe dire imporre lo scioglimento delle camere, con tutto quel che ciò comporterebbe a livello di credibilità europea, per difendere il diritto dei partiti a nominare i parlamentari. Vorrebbe anche dire affrontare la campagna elettorale con la certezza di non poter poi governare senza Forza Italia. Un suicidio politico.

Dunque la sola vera carta che Renzi può giocare è una sorta di «scambio» tra un capo dello Stato gradito alla minoranza Pd e la rinuncia a imporre una modifica troppo drastica delle proporzioni tra nominati ed eletti con le preferenze. Sarebbe una sentenza capitale per Veltroni, che sarebbe il preferito del segretario ma ha contro proprio la minoranza. In campo resterebbero due candidati dem: Fassino e Mattarella. Sul primo Berlusconi non ha detto no. Ma tutto è ancora da vedersi.