A poco piu di un mese dal 4 dicembre, Matteo Renzi approda a piazza del Popolo per il giro di boa che segna l’ultimo miglio della campagna elettorale piu lunga della storia. Il governo forte e il paese unito invocati dal palco per battere «l’egoismo europeo», il presidente-segretario spera di conquistarli con la vittoria del Sì al referendum contro la Costituzione. Ma se vincerà la sfida referendaria riuscirà a rafforzare il governo, mentre sarà più difficile unire un’Italia che da sei mesi vive, grazie a lui, una divisione profonda tra rottamatori e difensori della Carta costituzionale.

Il comizio elettorale tocca fatalmente tutti i tasti della propaganda del nuovo che vuole seppellire il vecchio, del futuro che per realizzarsi ha bisogno di togliere di mezzo il principale ostacolo individuato – dalle schiere renziane – nella democrazia parlamentare per come l’abbiamo conosciuta e vissuta, da sostituire con una democrazia d’investitura, con un indebolimento della rappresentanza ed un rafforzamento del potere esecutivo. E la propaganda dice che chi sposa la bandiera del Si desidera un paese migliore mentre chi si batte per il No «vuole solo riprendersi il posto che gli è stato tolto».

Però è uno strano modo di unire il paese se si toglie all’avversario – e ai milioni di cittadini che voteranno No – dignità politica, se si svilisce il dissenso interno, se si ridicolizza la critica che arriva dalla società, se si accusano gli avversari di pensare solo alla poltrona falsificando così l’identikit di chi non vuole sottoscrivere la sua idea-marketing del cambiamento.

Questo grillismo in salsa renziana aveva premiato il presidente-segretario, lanciandolo alla guida del partito e, successivamente, al comando del governo, grazie anche alla sbornia di quel 40 per cento di voto europeo che poi lo aveva spinto a cucirsi su misura una legge elettorale a colpi di voti di fiducia.

Ma oggi l’arma della rottamazione mostra un po’ la corda, rivelando un partito che perde voti e iscritti, che cede l’amministrazione di importanti città e che il 4 dicembre andrà oltretutto diviso alle urne. Un partito che, come ha ricordato il vecchio Ciriaco De Mita, nel faccia a faccia televisivo di venerdì sera su La7, al giovane leader dal piglio fanfaniano, sembra quasi ridotto a cassa di risonanza del segretario, dell’uomo solo al comando.

Un presidente-segretario che si perde per strada buona parte del Pd (qualunque cosa significhi la presenza in piazza di Cuperlo, immortalato dal selfie con la ministra Boschi), che provoca l’opposizione di mondi larghi come quello della scuola e del lavoro, è un politico che corre verso una meta precisa: quel partito della nazione che nel fuoco della battaglia referendaria dovrebbe perdere l’antica pelle della sinistra, per assumere un nuova identità che guarda sempre di più alla sua destra. Ma se questa è la scommessa, a rimetterci la pelle potrebbe essere non uno schieramento, non un partito, bensì la nostra Costituzione. Per questo «Bella ciao», usata per scaldare la piazza romana in attesa del comizio, più che come un omaggio sembrava scandire le note e le parole di un addio.