Ci sarà un’altra raccolta firme per un referendum per abolire il Jobs Act e reintrodurre l’articolo 18? Per ora il punto interrogativo è necessario. Il segretario della Cgil Maurizio Landini ne ha parlato alcuni giorni fa in un’intervista al Qn. «Le leggi che hanno favorito la precarietà vanno cambiate. Se governo e Parlamento non intervengono siamo pronti nei prossimi mesi a prendere in considerazione anche il referendum per abrogare leggi folli, compreso il Jobs Act», ha spiegato Landini.

Nel 2017 la Cgil provò una prima volta la strada referendaria per reintrodurre l’articolo 18 (con reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa). Ma la Corte costituzionale guidata da Paolo Grossi accolse la tesi dell’inammissibilità difesa da Giuliano Amato. Mentre la relatrice Silvana Sciarra, attuale presidente della Consulta, si era schierata per ammettere il referendum.

Ad oggi, la Cgil non ha ancora fatto partire la macchina organizzativa: non c’è un quesito su cui raccogliere le firme, e del resto la legge prevede che la raccolta possa iniziare, eventualmente, solo a gennaio. Per ora quello referendario è solo uno strumento di pressione politica di Landini, un’ipotesi. Sull’articolo 18 infatti il quesito dovrebbe essere modificato. Inoltre il Jobs Act è una legge delega, molto complessa, e non è ancora chiaro su quali altri punti si potrebbe intervenire. In ogni caso, gli italiani non sarebbero chiamati al voto prima della primavera 2025.

Nonostante tutto, la polemica politica è già scoppiata. È bastato che Schlein, intervistata martedì alla Versiliana, non bocciasse l’ipotesi, per scatenare l’offensiva di Renzi e Calenda. «Condividiamo la forte preoccupazione sulla precarietà del lavoro in Italia, che ha toccato livelli assurdi. Seguiremo con grande attenzione le iniziative del sindacato in questa direzione», le parole della leader Pd sulla battaglia annunciata da Landini. Un atteggiamento prudente, che non impegna il partito direttamente nella battaglia referendaria, se mai ci sarà.

E tuttavia questo è bastato, ad alcuni protagonisti di quella stagione di cosiddette riforme, per salire sulle barricate. «Appoggiare il referendum contro il Jobs act è un grave errore del Pd», tuona Calenda. «Non bisogna ingessare il mercato del lavoro». Renzi, che fu l’autore di quella riforma, chiama in causa i suoi ex ministri che sono rimasti nel Pd. «Cari Paolo Gentiloni, Roberta Pinotti, Beatrice Lorenzin, Marianna Madia, Dario Franceschini, Graziano Delrio: vi ricordate che voi eravate in consiglio dei ministri in quei giorni? Cari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, vi ricordate che voi eravate i vicesegretari di quella squadra? Quale faccia indosserete per recarvi al seggio? Io un referendum l’ho perso, ma meglio quello che perdere la dignità». «Così Schlein corbynizza il Pd», il gridfo di dolore di Enrico Borghi, che pochi mei fa ha lasciato i dem per Iv.

Tra i dem c’è grande prudenza. Non solo nell’ala destra che sostenne le riforme di Renzi. Cecilia Guerra, responsabile lavoro della segreteria, spiega che i dem potranno pronunciarsi solo se e quando ci sarà un quesito depositato. «Sui temi della precarietà, dei salari e della rappresentanza ci sono molti punti di contatto tra noi e la Cgil e siamo molto interessati ad una battaglia comune», mette a verbale. «Le firme che stiamo raccogliendo sono per il salario minimo, siamo concentrati su questo». Sulla stessa linea il responsabile economico Antonio Misiani. Tra i sostenitori della segretaria c’è chi ammette , a microfoni spenti, che se la Cgil dovesse davvero lanciare una battaglia referendaria «per noi sarebbe complicato dire di no». Anche a costo di una spaccatura.