L’ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione si è riunito ieri e ha concluso la sua attività di verifica sulle richieste riferite alla riforma costituzionale. Non c’erano dubbi sul fatto che il referendum si terrà (casomai il dubbio è quando si terrà, come vedremo più avanti), dal momento che già il 6 maggio erano state dichiarate regolari quattro richieste di deputati e senatori, due per il Sì e due per il No. Ai giudici del Palazzaccio restava da compiere l’ultima verifica sulle firme raccolte dal Pd e dai fiancheggiatori del Sì; anche questo passaggio adesso è terminato. L’esito, positivo, è stato comunicato a palazzo Chigi e probabilmente verrà ufficializzato oggi. Cominceranno così a decorrere i termini previsti dalla legge sui referendum (352/1970) che sostanzialmente concedono al governo la più ampia possibilità di scegliere la data più conveniente per Renzi.

Cercare di conoscere la data del referendum prima della decisione della Cassazione, aveva ammonito Sergio Mattarella la settimana scorsa dal Quirinale, è come fare la caccia ai pokemon. Ma, una volta nota la decisione dell’ufficio centrale per il referendum, resta intatta la libertà del governo di convocare a piacere purché entro sessanta giorni il consiglio dei ministri che deve fissare la data del referendum, possibile dal cinquantesimo al settantesimo giorno successivo. A meno che il presidente della Repubblica non voglia richiamare il presidente del Consiglio alla sua più volte declamata fretta: «Fosse per me il referendum lo farei subito» (Sky tg 24, 3 luglio scorso). Difficile che accada, anche perché nel frattempo Renzi ha cambiato strategia e punta a spostare il referendum a dopo l’approvazione alla camera della legge di stabilità. Con la quale spera di recuperare il consenso perduto e riportare il Sì in testa ai sondaggi. Certo, gli sarebbe stato più facile se la Cassazione avesse avuto bisogno di tutto il tempo a sua disposizione per concludere le verifiche, ufficializzando il via libera nell’ultimo giorno utile, il 14 agosto. In questo modo – grazie anche alle ferie – Renzi avrebbe potuto più facilmente tergiversare fino a metà settembre per convocare il consiglio decisivo. Adesso invece le opposizioni e i comitati del No che hanno interesse a che venga stabilità una data precisa possibilmente entro ottobre (la sessione di bilancio comincia negli ultimi giorni di quel mese) lo incalzeranno facilmente. Richiamandolo ai suoi precedenti annunci. Ma non potranno fare molto senza la sponda del presidente della Repubblica, che in definitiva è colui che deve firmare il decreto di convocazione delle urne.

Intanto ieri dieci parlamentari del Pd hanno diffuso un documento nel quale annunciano il loro No al referendum costituzionale. È la prima crepa ufficiale nel partito del premier e non viene da quelle minoranze organizzate (l’area Cuperlo e i bersaniani) che ancora rinviano la loro decisione, subordinandola a una modifica dell’Italicum o alla legge per l’elezione dei senatori. I senatori Corsini, Dirindin, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ricchiuti e Tocci e i deputati Bossa, Capodicasa e Monaco hanno appartenenze diverse, sono fuori dalle correnti o sono ulivisti-prodiani o erano nell’area di Civati prima che lasciasse il partito. Tutti, ad eccezione di Tocci che aveva anche presentato le dimissioni (respinte), hanno però votato a favore della riforma nei suoi ultimi passaggi decisivi in aula (Capodicasa e Monaco erano assenti). Ora spiegano di essere contro la riforma e non contro il governo, e sottolinenano l’importanza di tenere distinti i due piani (come non ha fatto Renzi). A sostegno della loro decisione portano ragioni di merito, ma anche di metodo. E pesanti dubbi sulla legittimità di questo parlamento a riscrivere la Costituzione. Aggiungono poi che per il Pd può essere utile presidiare anche il fronte del No, per evitare che in caso di bocciatura della riforma venga chiesta in maniera automatica la crisi di governo. Il vice segretario del Pd Guerini ha escluso per i dieci conseguenze disciplinari – «siamo un partito, non una caserma» – ma ha ripetuto che la posizione dei democratici è per il Sì «senza se e senza ma».