«La prima volta che facciamo sesso siamo tutti e due completamente vestiti, seduti alle nostre scrivanie durante l’orario di lavoro, immersi nella luce azzurra del computer. Lui è uptown a lavorare a una nuova serie di microfiches e io downtown a correggere le bozze del nuovo romanzo che ha per protagonista il detective Labrador». Così, con una scena di sesso virtuale e a distanza, si apre Chiaroscuro (traduzione molto efficace di Stella Sacchini e Ilaria Piperno, Feltrinelli, pp. 240, € 17,00) romanzo di esordio di Raven Leilani, trentenne afroamericana nata nel Bronx e fresca di studi alla New York University, che aveva già richiamato l’attenzione di alcune delle riviste più influenti sulla scena letteraria americana, da «Granta» a «McSweeney’s».

Protagonisti della scena, e di una relazione che è al centro dei primi capitoli del romanzo, passando rapidamente dalla dimensione virtuale a quella fisica, consumata dopo una lunga sequela di incontri «innocenti», sono Edith, ventitreenne nera, appassionata di pittura e impiegata in una casa editrice per bambini, e Eric, archivista digitale bianco, molto più anziano di lei e sposato. Edith è guidata da un costante desiderio di visibilità, che passa in larga misura per l’esibizione del corpo e si traduce, anche sul posto di lavoro, in relazioni spesso transitorie se non distruttive. Le ragioni di Eric sono invece misteriose, mascherate da regole imposte alla relazione in larga misura dalla moglie, Rebecca, al corrente di tutto e in fondo consenziente. Proprio lei, che lavora come anatomopatologa in un ospedale, si trasformerà nel vero deus ex machina del romanzo: approfittando di un’assenza per lavoro del marito non solo contatta Edith, ma decide di ospitarla a casa propria, con lo scopo apparente di impiegarla come aiutante per la figlia adottiva, la tredicenne Akila, anche lei nera e vistosamente a disagio in una comunità composta quasi esclusivamente da bianchi benestanti, ma forse in possesso di una agenda ben più complessa e ambigua.

Precedenti romanzeschi
Salutato prima ancora dell’uscita come uno degli esordi letterari con i quali fare i conti, Chiaroscuro è stato accompagnato nelle librerie americane da recensioni entusiastiche: c’è chi ha visto in Leilani l’erede di Zadie Smith, grazie al suo sguardo umoristico e disincantato sul sesso e sulle questioni razziali, e chi si è soffermato su una lingua spesso elegante, a tratti sovraccarica di metafore, costantemente finalizzata a stupire e spiazzare, sottolineando la vicinanza con una serie di «fratelli maggiori», tutti maschi e bianchi, da David Foster Wallace a Jonathan Safran Foer (tra l’altro, docente di scrittura creativa della stessa Leilani).

In realtà, una lettura di Chiaroscuro che vada al di là degli aspetti squisitamente stilistici e si concentri su quelli strutturali e narrativi consente piuttosto di accostare l’esordio di Leilani ad almeno altri due romanzi a firma femminile che hanno suscitato, negli ultimissimi anni, l’interesse della critica prima ancora che dei lettori: Asimmetria, di Lisa Halliday, e Il mio anno di riposo e oblio, di Ottessa Moshfegh, anch’essi curiosamente proposti in Italia da Feltrinelli.

I punti di contatto tra queste tre opere sono tematici non meno che formali: le protagoniste sono in tutti e tre i casi giovani donne che si muovono intorno al mondo editoriale, cercano un punto di equilibrio e di visibilità che passa attraverso il corpo e il desiderio, si raccontano a tratti con distacco e con una voluta superficialità che rasenta il cinismo, e molto sembra dovere ad alcune serie televisive che hanno segnato l’immaginario collettivo, soprattutto americano, degli ultimi anni, come Fleabag o Girls.

Halliday e soprattutto Moshfegh, non diversamente da Leilani, scelgono la forma narrativa mista del romanzo mascherato da memoir, muovendosi in quella zona di confine tra fiction e pseudo-autobiografia che sembra aver preso piede sulla scena letteraria non solo americana; lavorano sui moduli del romanzo di formazione smontandone le premesse grazie al rifiuto dichiarato di una discesa in profondità e a una sovraesposizione dell’Io che ricordano, più dei tanti modelli evocati dalla critica americana, un capolavoro anni Ottanta come Meno di zero, di Bret Easton Ellis.

Memoir mascherato (la passione per l’arte e perfino le esperienze lavorative di Edith corrispondono in buona parte a quelle dell’autrice) e romanzo d’invenzione (la famiglia disfunzionale e suicida dalla quale proviene la protagonista è totalmente fittizia), Chiaroscuro persegue in modo quasi deliberato il rifiuto di qualunque chiave di lettura psico-sociologica. Alla fine del primo capitolo, subito dopo aver preso colori e pennelli e aver dipinto un ritratto di Eric, la protagonista commenta: «Da qualche parte, nella Contea di Essex, Eric sta dormendo accanto alla moglie. Non è quello che voglio, non proprio – avere un marito o un sistema famigliare che mi dia sicurezza e non venga mai meno per tutta la durata del matrimonio. È che ci sono ore grigie, ore anonime come queste. Ore in cui mi assalgono la disperazione e la fame, ore in cui capisco come fa una stella a diventare un buco nero».

In un certo senso, l’intero romanzo è dedito a indagare le ragioni di questa fame e di questa disperazione. Le risposte più immediate – la tossicodipendenza della madre e le costanti infedeltà del padre, l’imperversare della discriminazione sul lavoro e della violenza razziale – sono tutte enunciate e al tempo stesso liquidate da Edith con una sorta di indifferenza, un distacco e un’adesione alla superficie delle cose che forse è difensiva, ma senza che di tale difesa divengano mai del tutto chiare le ragioni.

Un esempio tra tanti possibili: le violenze perpetrate dalla polizia – e di conseguenza l’intero movimento Black Lives Matter – vengono affidate a un breve passaggio nel quale Edith si prepara a una delle sue tante giornate di lavoro registrando una serie di informazioni, tutte apparentemente di uguale importanza: «Uccido uno scarafaggio in cucina, prendo una tazza di caffè tiepido e mi siedo alla scrivania dove, prima di iniziare a lavorare, mi faccio un giro tra certe foto stupide di miei amici che vivono una vita migliore della mia, poi leggo un articolo su un adolescente nero ucciso sulla Centoquindicesima Strada perché aveva in mano un’arma che in seguito si è scoperto essere un doccino, poi un articolo su una nera uccisa in Grand Concourse perché aveva in mano un’arma che in seguito si è capito essere un cellulare, poi sprofondo nella sezione commenti e faccio un po’ di shopping online, cioè metto quattro vestiti nel carrello a mo’ di esercizio strettamente teoretico e poi faccio scadere la sessione della pagina».

Nessuna ragione
Alla fame non c’è risposta, come non c’è una ragione ultima per la disperazione. Edith non è in fondo cambiata, al termine del romanzo, e l’esperienza paradossale e grottesca in casa di Eric e Rebecca non ha fatto che confermare la contraddizione di fondo che scandisce scelte e quotidianità dell’io narrante e che, per usare le parole della stessa Edith, «avrebbe definito la mia identità per anni: il tentativo di ritagliarmi una solitudine senza compromessi e il repentino tradimento di questo sforzo appena un uomo interessato mi metteva gli occhi addosso. Facevo finta di non essere preoccupata delle conseguenze del mio isolamento. Ma appena parlavo con qualcuno, mi ritrovavo a esagerare per compensare l’atrofia dei miei muscoli sociali».