Nusrat Jahan Rafi aveva 19 anni quando il 6 aprile scorso un manipolo di suoi coetanei con qualche sodale più anziano l’ha attirata sul tetto di una madrasa del Bangladesh orientale e ha iniziato a minacciarla per una denuncia contro il superiore della scuola che la giovane aveva accusato di molestie sessuali: accusa che – seppur tra molte difficoltà – l’aveva portato in carcere.

Ma quando Rafi si è rifiutata di ritrattare, il branco ha reagito cospargendola di cherosene e le ha dato fuoco. È la prova di un delitto premeditato. Rafi è arrivata in ospedale con l’80% del corpo bruciato. L’hanno trasferita a Dacca ma i medici non sono riusciti a salvarla: è morta cinque giorni dopo.

È riuscita però a raccontare la storia e a fare almeno in parte i nomi dei suoi assassini che conosce bene. Così ieri sedici persone, dodici delle quali già in carcere, sono state accusate del suo omicidio in base alla legge che in Bangladesh difende i diritti di donne e bambini.

Rischiano la pena capitale. Una pena che si crede esemplare dopo che la polizia e gli investigatori hanno agito rapidamente, tanto quanto i giudici che hanno ora mano un fascicolo di oltre 800 pagine sul caso.

La morte di Rafi ha fatto il giro del mondo asiatico. Per lei si è mossa anche la premier bangladese Sheikh Hasina e, soprattutto, gruppi di donne e di attivisti che hanno fatto del suo martirio una bandiera in un Paese dove – come denuncia un’inchiesta locale – soltanto l’anno scorso sono state violentate quasi mille donne (senza contare quelle che non hanno sporto denuncia).

La vicenda comincia in marzo all’Islamia Senior Fazil Madrasah di Sonagazi, un sottodistretto (upazila) di Feni nella città di Chittagong, 200 chilometri a sudest della capitale. Non è un’area importante (poco più di 200mila abitanti) ma l’università islamica ha un nome: ci si studia per diventare alim, per entrare a far parte degli ulema, i dotti dell’islam.

La gestione dei corsi è diretta da Siraj-ud-Daula, il preside ora sospeso (assieme a un altro insegnante, Afsar Uddin) e dietro le sbarre, accusato adesso di essere il mandante dell’omicidio di gruppo.

Il 27 marzo Rafi, prossima agli esami per diventare alim, si intrattiene nell’ufficio di Siraj, un personaggio che fa parte della Jamaat-e-Islami, il partito islamista del Bangladesh, da cui però è stato espulso nel 2016 proprio per i suoi comportamenti violenti.

E violente devono essere le sue attenzioni a Rafi che decide di denunciarlo, una scelta forte e difficile in un Paese dove non solo le donne hanno spesso dovere di sottomissione, ma dove il preside di una madrasa è un autorità. La polizia le fa storie cercando di sminuire e trascrive di malavoglia la denuncia di molestie.

Ma la magistratura fa il suo lavoro e Siraj finisce clamorosamente in carcere. A questo punto bisogna lavare l’onta: o la ragazza ritratta oppure va punita. Ci penseranno i sodali di Siraj con una tanica di cherosene dopo aver portato la giovane sul tetto della sua scuola e averla minacciata.

Consapevoli che se Rafi avesse resistito ci avrebbe pensato il fuoco a punirla di una fermezza che è anche il segno, seppur pagato a caro prezzo, di quanto stanno cambiando le donne del Bangladesh.