Dalla morte del padre, Wyatt e Lucy vivono isolati nel ranch di famiglia di Box Elder, non lontano dal deserto dello Utah. Una mattina la loro già piccola mandria di buoi è decimata da una ragazzina selvaggia dallo sguardo febbrile, una semi-automatica in una mano, un fucile da caccia nell’altra. Reso folle dall’idea che questo sia il primo passo verso la perdita della terra dei suoi antenati, Wyatt si lancia all’inseguimento della giovane: per dodici giorni attraverserà un mondo da incubo, popolato da bande di motociclisti strafatti, narcotrafficanti e coyote affamati in mezzo a una natura minacciosa e selvaggia.

Nata in Pennsylvania e cresciuta tra ranch e fattorie, al proprio esordio narrativo con Ruvide bestie (Neri Pozza, pp. 301, euro 18), Abigail Rae DelBianco reinterpreta il canone del western, guardando in maniera esplicita al lavoro di Cormac McCarthy, intrecciando a una storia in cui la natura e la violenza la fanno da padrone il respiro misterioso del Southern Gothic.

«Ruvide bestie» ruota intorno all’idea della sopravvivenza. I protagonisti lottano per non soccombere di fronte ad una natura ostile e ai loro stessi limiti. Un tema di drammatica attualità oggi, ma lei su cosa voleva indagare?
Sono cresciuta in un ambiente rurale, e guardando i calli che scomparivano progressivamente dalle mie mani al college ho iniziato a chiedermi se, data l’apparente sterilità della vita moderna, non rischiamo di perdere la forza emotiva che risiede proprio nel fare di più che sopravvivere, visto che – fino a questo terribile momento almeno – di norma non siamo più costretti a lottare per farlo. Abbiamo mani morbide e scarpe pulite, mangiamo petti di pollo preconfezionati che non somigliano più ad alcun animale. Siamo riusciti a sfuggire alla nostra battaglia quotidiana con la sopravvivenza, ma anche alla realizzazione che deriva dal fatto di vincerla. Ho cercato di ritrovare il senso di tutto ciò attraverso un romanzo che recuperasse qualcosa della narrativa della frontiera e di quanti ne hanno ridefinito il canone negli ultimi anni. Una storia nella quale i personaggi non dessero più nulla per scontato, combattessero ogni istante per sé, i propri affetti e i luoghi che amano.

Rae DelBianco

Nella vicenda che racconta il male sembra onnipresente, combinandosi con i gesti e le emozioni dei personaggi.
La vita rappresenta quasi sempre un incrocio bizzarro e inatteso di bene e male e raramente mette in scena uno scontro netto tra questi due elementi. Alcune persone fanno del loro meglio anche verso gli altri, qualcun altro sta semplicemente al mondo così come gli viene. E il tutto può mescolarsi, di continuo. Così, se un tempo nei racconti del West emergeva un confine netto tra buoni e cattivi, in ciò che scrivo la moralità si muove su una sorta di scala mobile: quando la sopravvivenza richiede di trasgredire le norme sociali, tutto cambia rapidamente. Nei vecchi film un uomo è un eroe quando uccide i malvagi per salvare la propria famiglia, ma quando quelli che uccide non sono cattivi che cosa diventa quell’uomo?

La natura è l’altra grande protagonista della storia, a cominciare dal deserto che avanza e sembra divorare cose e persone. Non si tratta mai di una presenza rassicurante. È la prospettiva di chi deve «addomesticarla» per vivere?
La natura sostiene la vita, ma non offre promesse. Chiunque abbia vissuto al di fuori delle città o, in America, nell’entroterra, lontano dalle coste, si è sentito almeno una volta umiliato dalla forza della natura è ha sviluppato un profondo rispetto quando non una giusta paura. Questa onnipotenza della natura è inoltre un’altra caratteristica della narrativa del West che mi affascina. Penso a come nell’isolamento di montagne e deserti si forgino una psicologia e delle personalità particolari che apprezzano la vita in ogni suo aspetto. A volte penso che la società sia nemica della sincerità, mentre ciò che mi interessa è poter guardare senza alcun filtro nell’anima degli individui.

Quanto c’è nel libro delle esperienze che ha fatto nei ranch?
Ho iniziato ad allevare capre a otto anni e bestiame a quattordici. La mia famiglia non lo aveva mai fatto e perciò abbiamo dovuto cominciare da zero, ascoltando gli agricoltori locali. Uno dei miei ricordi preferiti è quando, nel negozio di mangimi, abbiamo comprato una videocassetta su «Come costruire un recinto elettrico». Il mio primo vitello pesava 450 chili quando me lo affidarono e lo tirai su fino a farlo arrivare a una tonnellata. Ero una bambina senza attrezzi o protezioni, oltre agli stivali da cowboy e a una corda, impegnata ogni giorno con un animale abbastanza grande da uccidermi, ma che in qualche modo dipendeva da me. Anche se i luoghi sono diversi, ogni dettaglio che compare nel romanzo, dallo sporco sotto le unghie all’oscurità dei boschi, dallo scricchiolio degli stivali nella sabbia asciutta fino alla folle corsa del bestiame, è qualcosa che ho vissuto in prima persona.

La ragazzina che sconvolge la vita di Wyatt e Lucy sembra incarnare qualcosa di soprannaturale, quasi il «volto selvaggio» del destino. Cosa rappresenta?
La vedo come un impulso sfrenato e selvaggio che prende vita. La scrittrice Claire Vaye Watkins – autrice di Deserto americano e Nevada (Neri Pozza) , nda – ha definito quell’impulso come «la libertà della minaccia». La ragazza è libera perché non teme o può resistere alle conseguenze delle sue azioni. Nella vita reale come nella fiction quel ruolo è appannaggio di uomini che si credono onnipotenti, grandi politici o personaggi come Anton Chigurh, il killer di Non è un paese per vecchi di McCarthy. Volevo rappresentare emozioni e forze completamente liberate dalla società, nella loro forma più estrema, e volevo che ad incarnarle stavolta fosse una giovane donna.

Cormac McCarthy

Un personaggio che ribalta i luoghi comuni del western sulle donne, vittime o «dame» da conquistare. In un ranch la realtà è diversa?
Definirei la vita in una fattoria come «neutrale» rispetto al genere. Dove ho lavorato io indossavamo tutti i medesimi jeans e stivali infangati, e tiravamo su fieno e grano, o spalavamo letame allo stesso modo. Quando stai affrontando un animale la cui testa pesa più di tutto il tuo corpo, la differenza tra la tua forza e quella di un ragazzo è irrilevante. Hai piuttosto bisogno di strategia, tenacia e della capacità di pensare come un animale. Devi essere il tipo di persona che si sputerà sulle nocche insanguinate per pulirle prima di riprendere la corda della cavezza. Le giovani donne del West di cui volevo scrivere sono artefici ogni giorno della propria sopravvivenza.

Nel romanzo, il western si mescola con il «noir» e con il «gotico sudista». Una traccia delle sue letture?
Assolutamente. Adoro il romanzo gotico, sia quello del Sud degli Stati Uniti che quello classico europeo. Inoltre apprezzo ogni tentativo di riflettere sul crimine e la violenza in rapporto alla natura umana. Penso a Truman Capote, Daphne Du Maurier, William Styron, oltre che a William Faulkner, ma anche a serie tv come Breaking Bad. L’autore che mi ha influenzato di più è però Cormac McCarthy che è in grado di rendere la violenza attraverso una bellezza visiva caleidoscopica che rende impossibile allontanarsi.

In questo momento è impossibile non chiedere a chiunque come sta affrontando la pandemia e quale sguardo riserva al futuro. Nel suo caso?
Mi sono rifugiata in una casa di famiglia in Mississippi insieme a un gatto randagio e ai suoi cinque cuccioli. Il virus sta prendendo ogni giorno più piede negli Stati Uniti, ma il mio cuore è affranto da settimane per l’Italia, il paese da cui venivano i miei avi. Mio cugino John sta affrontando la pandemia nel suo primo anno da medico, e il coraggio e l’impegno che mette nel suo lavoro mi fa sentire così grata a lui come alle migliaia di altri operatori sanitari che sono in prima linea, mostrando il meglio dell’umanità nel porre gli altri davanti a se stessi. Quando tutto questo sarà finito, ciascuno di noi si dovrà interrogare: mi posso dire orgoglioso di come mi sono comportato quando tutto volgeva al peggio?