Ormai vent’anni fa, quando Rachel Cusk, al tempo niente affatto nota, decise di affidare a un dispositivo letterario la metabolizzazione del trauma che le era derivato dall’essersi ritrovata incinta prima, e madre poi, pressoché nessuno prestò attenzione alla già allora eclatante qualità della sua scrittura. Ancora più sorprendente è il fatto che la stessa Cusk ritenne di dover impiegare del tempo per difendersi, e rassicurare quell’infinitesimale frammento della pubblica opinione che se ne sentiva riguardato, sulla sua rispettabilità, anche dal punto di vista sentimentale.

Sembrava avesse perso di vista, lei pure, il fatto che la letteratura è anzitutto una macchina per elaborare il rapporto tra mondo esterno e realtà psichica, «e se non si presta a questo scambio diventa lettera morta», scrisse un giorno André Green. A chi non lo avesse avuto chiaro, lo psicoanalista francese ricordava anche che «l’opera non è il significato che essa ricopre, bensì è un lavoro di formalizzazione… Se fosse solo ciò che significa, allora non ci sarebbe differenza fra la sua fattura e quella di un trattato di psicologia, di un manifesto politico, di un cartellone pubblicitario».

Una doppia ambivalenza
Sembra, tuttavia, che nessun autore si rassegni a rinunciare nemmeno a quel pubblico che, di fatto, la sua stessa scrittura deliberatamente esclude. Dunque, nel riprendere in mano il proprio libro Rachel Cusk aggiunse una premessa dove giustificava Il lavoro di una vita Sul divenire madri (oggi ritradotto da Micol Toffanin, a cura di Anna Nadotti, Einaudi, pp. 150, € 12,00) puntualizzando come «l’ambivalenza che contraddistingue le prime fasi della genitorialità mi sembrava parente stretta della sostanziale ambivalenza degli scrittori verso la vita; un’ambivalenza che viene oscurata dai sistemi sociali complessi escogitati dalle comunità umane, e che gli scrittori e gli artisti tentano costantemente di guarire e risolvere».

Al di là del tentativo di forzare nella cornice del comme il faut il proprio talento, graziato peraltro da una esplosiva ironia, non poche delle pagine dedicate da Rachel Cusk a questo suo passaggio esistenziale si prestano (senza altre giustificazioni a riscattarle) a venire lette come un ammirevole esercizio narrativo di emancipazione dal buon senso comune, posto che dalla letteratura ci si aspetta non la ratifica dell’esistente ma semmai, appunto, la sollecitazione di qualche perplessità.

Alcune tra le pagine del Lavoro di una vita dove la descrizione trova un felice respiro sono dedicate non allo scontro con ciò che la maternità propone bensì a alcune strategie di negazione di quanto essa determina nel corpo: già avanti nella gravidanza, un giorno la voce narrante e scopertamente coincidente con l’autrice si avvia a un trekking sui Pirenei, allo scopo di raggiungere il lago ghiacciato in alta quota.

Tra la descrizione del paesaggio «una straordinaria voluta artica intorno alla quale la terra s’innalza scoscesa come gli spalti di un anfiteatro» e la discesa nei dettagli della rocambolesca caduta in un canalone scavato dalla neve, Cusk rende visibile un intrico di incidenti fisici e inciampi mentali, che alla fine della sua avventura sintetizza così: «Avendo sempre vissuto in un mondo di sentimenti, nella vita non ho mai sperimentato una competizione così diretta fra azioni ed emozioni… Ancora non ho riflettuto molto sulla maternità, ma sospetto che implichi una combinazione altrettanto inquietante di fatti e sentimenti». Quasi sempre, via via che si prepara al parto, la scrittura scivola veloce sulle tappe del tormento – «la prospettiva del travaglio mi rende felice e razionale più o meno quanto quella di essere uccisa» –, che prevede non solo rituali visite con corredo di ecografie la cui consegna non suscita alcuna commozione, ma corsi di yoga e altre risorse della società del benessere, quella società che pare contempli le più alte percentuali di cadute depressive mai registrate nella storia.

Sia come sia, alla fin fine la bambina arriva, e le strategie di negazione dell’evento cercano affannosamente altri appigli a riprova del fatto che nulla è cambiato: il giorno del ritorno a casa dall’ospedale, la neo-mamma invita alcuni amici, non allo scopo di mostrare loro la piccola bensì perché sia chiaro che la sua vita non ha subito alterazioni di sorta: «Quando apro la porta vestita di tutto punto, normale, si lasciano scappare una esclamazione: è che sono tornata com’ero, come una lettera non recapitata».

Tutto quanto segue, ovvero l’ironico computo dei mal riusciti esercizi di adattamento alla presenza delle neonata, dicono forse qualcosa circa la ricorrenza, nella biografia degli scrittori, di una concentrazione sulla propria pagina che mal sopporta interferenze, anche sentimentali. Come se quell’apertura al mondo che distingue la natura umana da quella di un animale geneticamente programmato per rispondere solo alla specifica nicchia ambientale che lo prevede, venisse meno; e la responsabilizzante libertà dell’animale umano di fronte al profluvio di stimoli che lo circonda anelasse a regredire verso la gabbia della pagina che ha davanti agli occhi, quella pagina che, sola, gli trasmette identificabili segnali di vita, mentre intorno tutto il resto gli sembra puro rumore.

Via via che la piccola cresce, tuttavia, le sue attrattive diventano più seducenti, e anche la speranza di interagire con lei si fa più vivace e più concreta. O forse no: «mi rendo conto che comunicare con la bambina è utile quanto sarebbe utile a un campo mettersi in comunicazione con l’autostrada che ci stanno costruendo sopra».

Un senso tutto privato
Di certo, il libro di Rachel Cusk non è iscrivibile al registro del comico, non sfiora mai il sarcasmo e somiglia piuttosto a un procrastinato esercizio di resistenza cui seguono altrettante rese all’evidenza dei subentrati limiti alla propria libertà. La ribellione alimenta il motore della scrittura tenendosi sideralmente lontana dallo sfogo, dal pamphlet, dalla tentazione di stringere in una sequenza di frasi ben riuscite la condizione umana: è invece un testo autobiografico narrativamente organizzato, che esibisce, contro l’ossequio al dover essere , il senso della propria soggettiva esperienza, fatta di affetti, energie conoscitive, e dolorose frustrazioni, derivate dalla impossibilità di usare il proprio patrimonio conoscitivo per difendere chi dipende da noi: «Colpevolmente – scrive Cusk a proposito della bambina – pensavo di averla precocemente battezzata all’eterna dottrina dell’umana sofferenza, della transitorietà delle cose, dell’inevitabile e definitivo svanire di ciò che si ama».