In questi giorni Lisbona è «occupata» da Doclisboa, un festival che è qualcosa di più di un evento cittadino e mostra come sia ancora possibile che il cinema d’autore e di ricerca eccentrico, non allineato, memoria e presente trovi un suo spazio e un pubblico che lo attende con attenzione. Non è scontato oggi nemmeno in un Paese come il Portogallo la cui identità cinematografica – da De Oliveira a Paulo Rocha, Monteiro, fino a Pedro Costa o Miguel Gomes – è divenuta negli anni – e tale è ancora nonostante gli attacchi legislativi alle produzioni indipendenti – un riferimento nel cinema mondiale, caratterizzando in modo speciale questo piccolo Paese affacciato sull’Atlantico – un «Paese insignificante lo definisce De Oliveira (in Memorie e confessioni) – fino a renderlo un luogo dell’immaginario, un «Paese del cinema».
Questa sua storia non ha prodotto come spesso accade una «sclerotizzazione», al contrario ha continuato a generare energie, sguardi, forme, narrazioni. Nei registi di nuova generazione c’è anche Joao Nicolau il cui nuovo film, Technoboss, chiuderà Doclisboa domenica prossima. Tra il musical alla Jacques Demy e la slapstick , seguendo le giravolte del suo protagonista, Luis Rovisco – magnifico Miguel Lobo Antunes – Nicolau si avventura nel Portogallo attuale, gentrificato nel sentimento prima che nei luoghi. E le acrobazie goffe del suo personaggio, venditore di sistemi di sorveglianza quasi in pensione, compongono una storia d’amore e di resistenza la cui materia è il piacere del cinema e della sua libertà. «Volevo raccontare un uomo solo al di fuori di un contesto sociale, per questo ho scelto la dimensione del viaggio. Luis lavora in macchina, si sposta nel Paese e quando si guida da soli ci si abbandona alle fantasia» dice Joao Nicolau.

«Technoboss» è quasi un musical.
Mi piace giocare con le immagini e col suono, è un rapporto che spesso manca nei film che guardo, o almeno non è mai egualitario. In fondo nella realtà sono insieme, avvengono nello stesso momento, ciò che vediamo e ciò che sentiamo, e provare a restituire questa prossimità è per me importante. Il musical è un genere che amo molto, qui la sfida era rendere la musica portatrice di stati emotivi creando un movimento organico tra i personaggi; è un po’ come una finestra aperta che illumina i diversi aspetti dell’animo umano senza però intralciare la narrazione. A differenza dei musical classici hollywoodiani degli anni ’50 che pure amo molto – Minnelli per me è un grandissimo regista – mi interessava mettere in scena l’aspetto intimo delle canzoni più che la performance in sé, e attraverso di loro rivelare il personaggio.

La figura del protagonista sembra coincidere col punto di vista attraverso il quale viene restituito il mondo. Da cosa nasce?
All’inizio dal desiderio di confrontarmi con un momento esistenziale diverso rispetto a quello del mio film precedente, John From (2016), al cui centro c’era un’adolescente. E poi dalla volontà di rompere il cliché deprimente col quale di solito viene rappresentata la vecchiaia nonostante ci siano ottimi film sul tema. Luis Rovisco è un uomo sereno, in pace con sé stesso, che è contento della sua vita e cerca di goderne i lati migliori – gli piace passare del tempo col nipote, si diverte al lavoro ecc. Forse è questo che infastidisce gli altri. Ma come dicevo volevo evitare l’immagine miserabilista della vecchiaia, e anche per questo era molto importante trovare l’attore giusto. Abbiamo fatto diversi casting ma non ero convinto da nessuna proposta, poi a una festa ho incontrato Miguel Lobo Antunes, che conoscevo di vista e che non è un attore ma è stato una figura chiave nella vita culturale portoghese. Il suo modo di muoversi, di parlare mi aveva colpito, mi sono detto che sarebbe stato perfetto nel ruolo. Non è stato semplice convincerlo ma poi si è impegnato davvero tanto, abbiamo lavorato mesi, fatto moltissime prove come a teatro – ripeto sempre a lungo con gli attori prima di girare. Lui era alla prima esperienza, voleva sentirsi sicuro di sé.

L’altro elemento caratterizzante è la slapstick.
Era già presente nella sceneggiatura (scritta da Nicolau insieme a Mariana Ricardo, ndr), e ha assunto dei contorni più netti dopo che abbiamo scelto Miguel lavorando sulla sua gestualità. É una persona molto intelligente, era chiaro da subito che si poteva giocare con lui. Nelle prove l’ho osservato, e lui ha capito subito quale era il registro espressivo che stavo cercando.

Il paesaggio del Portogallo che vediamo dai finestrini della macchina di Luis è quello di un Paese in piena gentrificazione: turismo, grandi hotel, uno svuotamento emozionale.
Sono temi che mi appassionano anche se cerco di non sottolinearli troppo nel film, preferisco lavorare su quegli elementi che li portano in primo piano senza forzature. Abbiamo girato in autunno, le costruzioni che si vedono sono reali, mi piace filmare in modo fisico; per esempio quando si spostano in Spagna sono davvero lì. Gli hotel come quelli del film sono pieni di nordeuropei che passano in Portogallo l’inverno. È l’Europa ricca che invade l’Algarve, rendendo evidenti le diseguaglianze attuali. Il nostro governo investe moltissimo sul turismo con la convinzione che invece la cultura non può essere un motore di ricchezza. E oggi la struttura produttiva del cinema che era competitiva è stata distrutta,