Il Partito comunista d’Italia – come inizialmente si chiamò il Pci, a significare che voleva essere una sezione dell’Internazionale comunista sorta a Mosca nel 1919 – ha la sua genesi nella Rivoluzione d’Ottobre e dunque nella Prima guerra mondiale, senza la quale la Rivoluzione russa non ci sarebbe stata, né si sarebbe determinata in Italia una situazione per molti versi esplosiva. Dopo la Grande guerra, infatti, gli equilibri sociali e politici erano cambiati.

I sacrifici patiti durante il conflitto, le promesse non mantenute (soprattutto quelle fatte ai contadini mandati in trincea), il calo dei salari reali degli operai, l’esempio e il mito della Rivoluzione russa: tutto ciò fece pensare a molti, in tutti gli schieramenti, che ci si trovasse in una situazione rivoluzionaria.

Anche il Partito socialista partecipò di questa convinzione, ma per gran parte del suo gruppo dirigente si trattò di un’adesione superficiale al clima del «biennio rosso» 1919-1920. Nella sinistra del Partito, invece, alcuni gruppi guardavano alla rivoluzione come a un evento non solo auspicabile, ma effettivamente possibile. Vi era la rivista Il Soviet di Bordiga, convinto che il solo soggetto rivoluzionario fosse un partito ristretto e ferreamente organizzato per sfruttare le contraddizioni economiche che avrebbero portato presto e inesorabilmente al socialismo.

E vi erano i torinesi dell’Ordine Nuovo di Gramsci, per il quale dovevano essere i Consigli di fabbrica, insieme al partito, i protagonisti di una rivoluzione da preparare sul piano sociale e culturale oltre che politico, prefigurando una nuova democrazia consiliarista e non più parlamentare.

La scissione di Livorno del 21 gennaio 1921, guidata da Bordiga – che per tempo aveva organizzato a questo scopo una frazione –, fu numericamente un fallimento. Al XVII Congresso socialista, dei 172mila votanti (su 215mila iscritti) gli «unitari» guidati da Serrati ebbero 98mila voti, i comunisti 59mila, i riformisti 15mila. Al nuovo Partito comunista aderirà solo un quarto degli iscritti.

La scissione alla livornese non piacque a Mosca e «non fare come a Livorno» divenne uno slogan diffuso ai vertici dell’Internazionale. La scissione era stata minoritaria a causa della rigidità e del settarismo di Bordiga, ma anche perché avvenne (come rilevò Gramsci) quando era già passata l’ondata rivoluzionaria, quando il movimento dei Consigli era stato sconfitto con la complice sordità di tutto il Psi, a eccezione dell’Ordine Nuovo. La fondazione del nuovo partito si era infine palesata inevitabile anche per Gramsci. Ma i ritardi accumulati sul piano organizzativo fecero sì che il suo peso risultasse, nei mesi e anni seguenti, inferiore a ciò che avrebbe potuto e dovuto essere.

La rigidità di Bordiga s’innestava in un’altra rigidità, quella della «21 condizioni» che l’Internazionale aveva dettato l’anno prima ai partiti che volevano farne parte. Nel giro di pochi mesi però la situazione politica era mutata: svanita la speranza dell’estendersi della rivoluzione, Lenin aveva capito che non era più il tempo dell’offensiva, che bisognava consolidare le posizioni: veniva lanciata a livello internazionale la politica del «fronte unico» e, su quello interno, la Nep, il parziale ritorno al mercato.

Separatevi da Turati e poi alleatevi con lui, consigliava il capo bolscevico ai rivoluzionari italiani. Più facile a dirsi che a farsi: le scissioni lasciano odi e risentimenti. Bordiga poi, col suo settarismo, complicò le cose. Il correntone massimalista unitario di Serrati, che avrebbe voluto restare nell’Internazionale ma non espellere i riformisti, come richiesto dalle «21 condizioni», fu respinto. Nacque un Partito comunista piccolo, disciplinatissimo, ideologicamente rozzo e poco capace di fare politica. Tornato a Torino dal congresso, Gramsci si sfogò con Camilla Ravera dicendole: «Livorno, che disastro!».

I primi anni della gestione bordighista del Partito furono pieni di errori. Incapace di una «analisi differenziata» della situazione e delle forze in campo, Bordiga più di altri sottovalutò il fascismo, respinse l’invito dell’Internazionale a cercare l’unità coi socialisti, impedì persino ai militanti comunisti di unirsi agli Arditi del Popolo, che intendevano combattere gli squadristi con le armi.

Solo nel 1923-1924 Gramsci riuscì a prendere (con l’appoggio dell’Internazionale) la guida del Partito, ricreando in parte quel gruppo ordinovista che si era disperso: la rottura col «destro» Tasca era stata definitiva, mentre Terracini e Togliatti dovettero essere sottratti all’influenza della personalità di Bordiga e della sua impostazione politica e ideologica.

La critica gramsciana si indirizzò allora al «come» era stato costruito il Partito comunista (minoritario, settario, militarizzato), non certo alla fondazione del nuovo partito in sé – che restava per il comunista sardo, pur coi suoi limiti, il nucleo iniziale «di una più vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta di Caporetto».

La lotta interna contro Bordiga durò fino al 1925-1926. Nel gennaio 1926 a Lione vi fu un vero e proprio Congresso di rifondazione del Partito, ora guidato da Gramsci e Togliatti su una linea politica molto diversa da quella del «primo periodo» bordighista: un partito che (sia pure ancora con forti limiti di settarismo) guardava ai rapporti con le altre forze politiche e soprattutto era molto più attento alla presenza nelle fabbriche e nel Mezzogiorno, impegnato in quella «ricognizione del terreno nazionale», storica e sociale, necessaria per svolgere proficuamente la propria battaglia.

Ma ormai era troppo tardi, il fascismo aveva vinto. Nell’ottobre 1926 Gramsci venne arrestato. Nonostante tutti i suoi limiti ed errori, il piccolo partito nato a Livorno restò comunque l’unica forza attiva nel Paese per lottare contro la dittatura. E alla fine fu determinante per la «Vittorio Veneto» della democrazia.