Tornato dal Sinai, Mosè intimò la distruzione del vitello d’oro. L’obiettivo era quello di scongiurare ogni idolatria, ogni culto delle immagini. Paradossalmente, tuttavia, proprio quell’ordine, tramandato nella sua imperiosità dal testo biblico, si è fatto garante della preservazione di quell’immagine che si voleva annichilire, a cui successivamente sarebbe toccato in sorte di reincarnarsi in innumerevoli dipinti, rilievi, sculture, racconti.

UN TALE APOLOGO deporrebbe a favore dell’attribuzione alle immagini di una sorta di indistruttibilità, al di là delle vicende contingenti dei supporti in cui si realizzano. Si tratta di una tesi esplicitamente sostenuta come uno degli assunti di base di una possibile image science da W.J.T Mitchell in un volume dal titolo Scienza delle immagini. Iconologia, cultura visuale ed estetica dei media, recentemente tradotto da Johan&Levy (pp. 276, euro 27), dopo che l’anno scorso era stata riproposta una raccolta di saggi dello stesso autore con il titolo Pictorial Turn (Cortina).

LA FAMA di W.J.T. Mitchell è legata alla pubblicazione, nel 1987, di un testo dal titolo Iconology, che ha contribuito significativamente alla strutturazione dei visual studies e alla pictorial turn nelle scienze sociali, per utilizzare la neolingua dei cultural studies. L’esigenza era quella di elaborare nuovi approcci alle immagini a partire dalle sollecitazioni fornite dalla loro sempre più intensa, pervasiva e rapida circolazione. Ci si poteva limitare ai toni compiaciutamente apocalittici, in stile Baudrillard, proclamando l’impero del falso e l’avvento dell’iper-realtà, con esiti retoricamente efficaci quanto teoricamente poveri e ripetitivi. Oppure procedere, al confine fra storia dell’arte, estetica, semiologia, scienze cognitive e media studies, a un’interrogazione sull’essere delle immagini, sui regimi storici della loro circolazione, sull’economia delle relazioni fra i sensi che stabiliscono. Per un singolare paradosso, tuttavia, come si avrà modo di vedere, proprio quella dimensione visuale che il nuovo ambito disciplinare (e accademico) intendeva riscattare dal confinamento all’analisi delle «grandi opere d’arte» o dalla subordinazione alla dimensione testuale finirà per essere la vittima, nella sua autonomia, degli sforzi della «scienza delle immagini».

W.J.T. Mitchell apre Scienza delle immagini presentando il volume come una sorta di compimento di una tetralogia iniziata con Iconology e scandita da Picture Theory e What Do Picture Want?. In sintesi, come l’occasione per un bilancio del proprio percorso di ricerca, specie la prima parte del libro, e allo stesso tempo per un confronto, nei saggi che ne compongono la seconda parte, con tematiche di stretta attinenza politica, collocate temporalmente fra la fine dello «spettacolo» della Guerra al terrore e l’ascesa di Donald Trump, in un’interstizialità obamiana posta all’insegna della grande recessione, dei movimenti di Occupy e dell’emergere della tematica del «controllo».

Il titolo è decisamente perentorio. Scontando l’anacronismo, si parla di scienza delle immagini, come se, dopo una lunga gestazione, risultasse possibile passare dai più timidi «iconologia», «teoria» o «svolta» a una sintesi costituente. E di una possibile scienza delle immagini Mitchell individua alcuni fondamenti. In primo luogo, la distinzione fra picture e image, due termini traducibili in italiano con «immagine» ma che in inglese hanno due significati distinti, con picture che rimanda a un oggetto materiale e image a ciò che «compare in una picture». Ed è proprio l’image la realtà di cui si postula l’indistruttibilità, come si diceva in riferimento alla vicenda mosaica. L’image, quindi, è ciò che appare in una picture o, meglio, in un medium, ma «che sopravvive alla sua distruzione – nella memoria, nelle narrazioni, nelle sue copie e nelle sue tracce in altri media».

DI CONSEGUENZA, l’immagine, deve essere liberata «dalla tirannia dell’occhio fisico e corporeo». E questo non solo perché a livello percettivo si ha sempre a che fare con la cooperazione di altri sensi ma anche per il fatto che lo stesso linguaggio è un medium attraverso il quale transitano le immagini. Non a caso si cita Maimonide, secondo cui la vocazione anti-idolatrica andava spinta in seno allo stesso linguaggio biblico, carico di immagini, al fine di restituire la parola a una impossibile purezza logico-formale e religiosa. Il rischio, però, a questo punto, è che la scienza delle immagini divenga una sorta di meta-scienza, o scienza del tutto, da cui nulla rimane escluso, specie se si tiene conto di come Mitchell spinga la sua analisi anche sul terreno biopolitico, leggendo in termine di image riprodotta in un medium, come biopicture, anche i fenomeni legati alla clonazione.