A 38 anni, il ricercatore romano Walter Quattrociocchi dirige il laboratorio di Scienza dei dati e complessità all’università Ca’ Foscari di Venezia. Informatico di formazione, oltre che dalle riviste specializzate, le sue ricerche sono citatissime dai media internazionali (New York Times, Guardian e altre), ma anche dai documenti che «contano», come il Global Risk Report del forum economico mondiale di Davos. Quando nel 2017 Laura Boldrini creò un tavolo di lavoro per combattere le fake news, il coordinamento del gruppo di esperti fu affidato proprio a lui.

DA POCO è in libreria Liberi di crederci. Informazione, Internet e post-verità (Codice edizioni, pp. 176, euro 15), scritto da Quattrociocchi insieme alla giornalista Antonella Vicini e basato sulle ricerche del gruppo interdisciplinare del ricercatore, composto da informatici, fisici e neuroscienziati.

Il saggio esce in un periodo molto caldo, visto che il dibattito politico sembra monopolizzato dai tweet di Salvini. Non che le bufale online su immigrati, vaccini e sbarchi sulla Luna non esistessero anche prima ma se a diffonderle sono ministri e sottosegretari il corto-circuito è davvero pericoloso. Tuttavia, secondo lo scienziato Quattrociocchi, combattere le fake news a colpi di pazienti ricostruzioni documentate è uno sforzo inutile.

«Il complottista non interagisce con chi smonta le bufale. In uno studio del 2015 effettuato su 54 milioni di utenti di Facebook, abbiamo dimostrato che solo un utente su dodici interagisce con voci contraddittorie. Chi aderisce a una teoria del complotto entra in una comfort zone in cui nessuno contraddice le mie idee. A quel punto, ogni tentativo di smentire una bufala porta a polarizzare le posizioni, e a radicalizzarle».

Qual è il modo giusto per combattere la diffusione delle bufale, allora?
Dai dati emerge che il 91% dei temi che polarizzano le discussioni sui media è anche argomento di fake news. Dunque, smontare le bufale non è un lavoro facile e in realtà nessuno sa esattamente quale sia il metodo migliore. Bisogna riuscire a superare il cosiddetto confirmation bias, cioè la naturale tendenza a credere alle informazioni che confermano le nostre opinioni. Forse una chiave sta nel dimostrare empatia con l’interlocutore, che sia il letttore di un giornale o l’utente di un social network. Quel che è certo è che l’atteggiamento utilizzato, solo per fare un esempio, dal virogolo Roberto Burioni per promuovere le vaccinazioni non funziona, allontana le posizioni invece che cambiarle.

Nel libro scrivete «l’uomo come essere razionale è una delle fake news più grandi della storia». Cosa significa?
L’individuo irrazionale è tale solo per chi la pensa diversamente da lui, e si può dire la stessa cosa a parti invertite. In realtà siamo tutti, in un certo grado, irrazionali. Invece ci illudiamo di riuscire a capire tutto. Il complottismo non è irrazionale: è una strategia che tende a diminuire l’ansia e il disagio nei confronti del mondo esterno, e da questo punto di vista è perfettamente razionale. Lo scientismo non è molto diverso, spesso diventa un’altra forma di religione. Presentare la scienza come un totem non è molto diverso dalle teorie del complotto.

Nel suo gruppo di ricerca lavorano informatici e fisici. Poco tempo fa, l’analisi dei gruppi sociali invece veniva svolta da sociologi e antropologi. Cos’è cambiato?
La questione cruciale si chiama data science, cioè scienza dei dati. Prima di Internet e dei social network, i sociologi potevano analizzare in maniera dettagliata gruppi composti da qualche centinaio di persone. Oggi i social network ci permettono di effettuare studi su numeri molto più grandi: in uno studio del 2017, per esempio, abbiamo analizzato 376 milioni utenti di Facebook. Dunque servono competenze diverse. Ma in compenso possiamo ottenere risultati più solidi dal punto di vista scientifico: verifichiamo ipotesi teoriche e proviamo a verificarne la riproducibilità sperimentale. Gli antropologi si affidavano all’ermeneutica, e difficilmente potevano ottenere lo stesso risultato.

Avete dato vita a «Pandoors», una «rete integrata di persone, piattaforme e contenuti». Di che si tratta?
Ci occupiamo di analizzare e monitorare la temperatura del dibattito pubblico, soprattutto attraverso i social network. L’obiettivo è individuare tempestivamente, e magari prevedere, le narrative e le echo chamber che dominano il dibattito pubblico. Potrebbe essere uno strumento per programmare in modo più efficace una strategia di comunicazione su un certo tema. Abbiamo iniziato a collaborare con la London School of Economics di Londra e, in Italia, con il Corriere della Sera. Ora stiamo osservando quello che succede sul tema dell’immigrazione in Italia. Il dibattito sui rom fa davvero paura. Ma è ancora un work in progress.

La disinformazione online si è sempre nutrita di un diffuso sentimento contro la casta. Continuerà a diffondersi anche ora che al governo ci sono proprio loro?
Le fake news prescindono dalla realtà politica, finché si inseriscono in un clima di perenne campagna elettorale. Continua a vincere chi riesce ad alimentare identità e voglia di rivalsa nei confronti dell’élite, che può essere rappresentata da chiunque. Quel che è grave è che la cosiddetta «élite» sta rispondendo con un atteggiamento classista.