E’ dall’inizio degli anni ’90 che le Nazioni unite classificano le violenze degli uomini contro le donne come un problema di violazione dei diritti umani, alla stessa stregua della tortura. E con la «Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne» del 1993, l’Onu toglie ogni alibi ai singoli Stati considerandoli responsabili degli atti di violenza compiuti dai propri cittadini se non sono intervenuti in tempo allestendo programmi di prevenzione e garantendo adeguati risarcimenti alle vittime.
Nonostante questo in tutto il mondo le donne continuano a essere picchiate, violentate e, spesso, uccise. In Italia sono più di cento ogni anno quelle assassinate da un partner o da un ex incapace di rassegnarsi alla fine del rapporto. Anzi molto spesso sono proprio questi ultimi i più pericolosi, ossessionati dal veder andare via quella che considerano la «propria» compagna di vita.

Uno studio condotto nel 2011 dalla ricercatrice Giuditta Creazzo per conto della Fondazione del Monte, e intitolato «Gender-based violence: le violenze maschili contro le donne», evidenzia come la percentuale delle donne perseguitate dal proprio ex sia superiore di almeno 10 punti rispetto a quelle che sono vittime del partner attuale. In Danimarca questo accade nel 25% dei casi a fronte di un 3% di donne che subiscono violenza dal compagno, nella Repubblica Ceca la percentuale sale al 38% (contro il 16%), in Polonia al 29% (7%), per poi ridiscendere in Italia dove siamo al 17% (7%). «Un dato che si ripropone in molte indagini in tutto il mondo – spiega la ricercatrice – e che può dipendere da diversi fattori, fra cui l’incidenza di casi di violenza nelle separazioni o nei divorzi, il fatto che le violenze possono continuare dopo la separazione, e forse anche la maggiore capacità da parte delle donne di parlare delle violenze subite da un compagno con cui la relazione si è interrotta piuttosto che da quello attuale».

Un passo nella palude
Non sempre, e non subito le aggressioni toccano un livello estremo di violenza. Spesso all’interno della coppia si comincia con un litigio, urla e parolacce per mettere a tacere l’altra persona. E quando questo non funziona arrivano le prime spinte, le strattonate, gli sputi e il lancio di oggetti. E poi i calci e i pugni, ma anche i tentativi di soffocamento, le minacce con un’arma, mozzichi e bruciature. E’ come camminare in una palude, affondando un po’ di più a ogni passo fino a quando la vittima resta incastrata e non sa più come uscirne, perché ormai è troppo tardi. «Quella della violenza è un’asticella che si alza gradualmente, mano a mano che all’interno della relazione diminuisce la tolleranza verso la partner», spiega Alessandra Pauncz, fondatrice del Centro uomini maltrattanti di Firenze (www.centrouominimaltrattanti.org), una struttura che dal 2009 a oggi ha preso in cura 180 uomini-aggressori che hanno chiesto un aiuto psicologico. «Il maltrattamento fisico comincia sempre con il maltrattamento psicologico», prosegue Pauncz. «Se uno riesce a controllare l’altro con le parole, a volte con dei gesti intimidatori magari non arriva mai alla violenza vera e propria, ma c’è sempre una gradualità accompagnata dal tentativo di manipolare la partner».
Ma cosa spinge un uomo ad alzare le mani verso la donna che dice di amare? I fattori di rischio – come li chiamano gli esperti – possono essere molti e non sempre a prevalere sono la gelosia e la paura di essere lasciati. «Gli elementi di tensione che esistono in ogni coppia normale sono presenti anche all’interno delle coppie violente, e possono far degenerare le situazioni», continua Pauncz. I figli, la casa, i soldi, perfino dove e con chi passare le vacanze, ma anche i genitori di lui o di lei. «Tutte quelle aree in cui c’è la necessità di esercitare un potere e un controllo, e la violenza è un modo per chiudere ogni discussione riprendendo il controllo della relazione», prosegue Pauncz.

Anche se per ora sono pochi, ci sono però uomini che, in un momento di residua lucidità, riescono a capire quanto stanno facendo e a fermarsi chiedendo l’aiuto di uno psicologo. Una minoranza, ma la loro scelta è resa più importante dal fatto che è volontaria e non conseguente a una denuncia. «La maggior parte di loro si rivolge a un centro perché vogliono recuperare il rapporto con la proria compagna e capiscono che la violenza lo sta mettendo seriamente in crisi» spiega Pauncz.
Uomini che chiedono aiuto. «Spesso si tratta di richieste non esplicite», prosegue sempre Pauncz. «L’aggressore si rivolge al medico di famiglia, magari anche a uno psicologo o a servizio di mediazione familiare spiegando come vive lui le difficoltà presenti nella coppia ma senza parlare mai di violenza. Non dice: ‘Dottore sono qui perché ho picchiato mia moglie’. Questo è il problema. Si percepisce come la vittima della situazione, come colui che ha subito ingiustizie, soprusi da parte della compagna che non lo apprezza abbastanza e che si disinteressa a ciò che lui mette nella relazione. Si sente vittima e non aggressore. E spesso viene qui e ti dice: ‘Sì io le ho dato uno schiaffo, ma se vi racconto cosa mi fa lei sono sicuro che mi date ragione’. C’è un processo interiore comune a tutti gli aggressori che li porta a minimizzare e perfino negare le violenze compiute».

Richieste di protezione
Se pochi sono gli uomini che si rivolgono a un centro, va detto che poche sono anche le donne che denunciano chi le maltratta. Una scelta spesso dovuta al timore che la loro richiesta di protezione e giustizia venga disattesa dalle istituzioni. Sempre Giuditta Creazzo ha coordinato un progetto di ricerca – presentato dall’Istituto di ricerca Carlo Cattaneo e dalla Casa delle donne di Bologna – condotto in Italia, Spagna, Romania e Inghilterra proprio sulla domanda di giustizia delle donne. Il volume con i risultati dell’indagine, intitolato «Se le donne chiedono giustizia: le risposte del sistema penale alle donne che subiscono violenza nelle relazioni di intimità: ricerca e prospettive internazionali», edito dal Mulino, verrà presentato prossimamente e illustra i risultati ricavati dall’esame di più di 1.000 fascicoli giudiziari insieme a interviste a donne e operatori, dai quali emerge la complessità connessa alla scarsa propensione delle donne a denunciare il proprio partner. «Spesso non lo fanno per paura di nuove aggressioni, perché non ottengono una vera protezione, perché sanno di interventi che si trasformano in una nuova vittimizzazione e perché non sanno ciò a cui vanno incontro», spiega Creazzo. Forse non è un caso che in Inghilterra e Galles, dove da anni esistono programmi di sostegno alle donne, le denunce per violenza domestica siano in aumento. Ma un altro aspetto che la ricerca mette in luce, riguarda poi la richiesta insita nella scelta di non denunciare o di ritirare la denuncia una volta fatta. Molte donne non vogliono vedere il partner in prigione, nella speranza che cambi smettendo di usare violenza contro di loro e i figli. «Anche quando la decisione di rivolgersi alle forze dell’ordine è presa – prosegue la ricercatrice – le richieste che le donne rivolgono al sistema penale sono innanzitutto richieste di protezione e di sicurezza, di un intervento diretto a controllare e far cessare le violenze non sempre accompagnato dalla volontà di punire il colpevole, soprattutto se la relazione non è finita».

Impunità per gli aggressori
Un ulteriore disincentivo deriva poi dall’impunità di fatto garantita agli aggressori, visto che delle violenze denunciate solo poche arrivano a sentenza e ancora meno a sentenza di condanna. Ma è tutto l’iter giudiziario ad essere irto di ostacoli e messo sotto accusa. La ricerca denuncia infatti problemi che vanno dalla scarsità di indagini e di adozione di misure cautelari, alla lunghezza dei processi, all’esiguità delle pene, spesso infatti si ha a che fare con uomini incensurati. In Spagna e in Gran Bretagna tuttavia, proprio grazie alle attività di formazione messe in atto, le donne si dichiarano soddisfatte degli interventi della forze dell’ordine, diversamente da quanto accade in Italia e Romania. Qualche altro dato della ricerca aiuta a capire il perché di questa insoddisfazione. Un atto di indagine importante come l’audizione della vittima viene effettuato solo nel 3% dei casi in Romania e nel 39% dei casi in Italia, contro il 75% dei casi in Spagna. La facoltà di arresto viene applicata nel 13% dei casi in Italia, nel 3% in Romania, nel 63% in Spagna e nel 70% dei casi in Inghilterra. E ancora: in Romania più del 90% dei casi viene archiviato dalle procure e più del 60% in Italia, contro circa il 30% della Spagna. Insomma, ce n’è abbastanza perché italiane e rumene non possano dirsi contente.
(2-fine. la precedente puntata è uscita il 28 agosto)