Dopo quattro giorni di silenzio, il governo nordcoreano ha fatto arrivare la propria risposta all’escalation della tensione generata dal bombardamento-lampo degli Stati Uniti contro la base siriana di Sharyat. Se l’interventismo di Trump in Siria voleva essere un segnale trasversale anche per Pyongyang e Pechino, la dichiarazione del ministero degli esteri nordcoreano affidata all’agenzia di stampa nazionale Kcna riafferma il pericolo di una degenerazione totale della situazione in Asia Orientale.

«L’ATTACCO MISSILISTICO americano contro la Siria è un chiaro e imperdonabile atto di aggressione contro uno stato sovrano e lo condanniamo con forza», si legge nel comunicato. «La realtà di oggi dimostra che la nostra decisione di rafforzare la nostra potenza militare sia stata la scelta giusta un milione di volte».
A due giorni dalla conclusione del meeting di Mar-a-Lago tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente Usa Donald Trump, il «problema Corea del Nord» torna a pesare come un macigno sui rapporti bilaterali sino-americani e, se possibile, alla luce del sostanziale nulla di fatto raggiunto dalle due diplomazie in Florida sul tema, la ricerca di una soluzione sull’asse Pechino-Washington diventa questione di massima urgenza, argomento non più procrastinabile.

IL VERTICE TRA XI E TRUMP, complice l’effetto destabilizzante dei 59 Tomahawk lanciati mentre i due leader erano in fase digestiva post cena, si era concluso con un sostanziale nulla di fatto. Nessun annuncio di investimenti, nessuna convergenza né sul Mar cinese meridionale né sul dossier coreano; consenso solo su una finestra di 100 giorni in cui le due parti discuteranno su come incentivare le esportazioni Usa in Cina e ridurre il passivo che Washington soffre nella bilancia commerciale con Pechino, stimato intorno agli 1,4 trilioni di dollari complessivi, e nell’impegno a «valutare nuove modalità per migliorare il dialogo in campo militare». Insomma, tutto rimandato a un futuro prossimo in cui Xi e Trump, che si sono sforzati di sottolineare un improbabile «clima positivo» che avrebbe permeato i due giorni del vertice, se non altro si sono reciprocamente schiariti le idee su chi avessero di fronte. Un futuro prossimo che ora, dopo la presa di posizione di Pyongyang, dovrà necessariamente accorciarsi.

L’APPROCCIO della Casa bianca alla minaccia nucleare nordcoreana è molto chiaro: «Se la Cina non ci aiuta allora faremo da soli» e «sulla Corea del Nord le opzioni sono tutte sul tavolo» dei giorni scorsi sono oggi minacce concrete di un interventismo a stelle e strisce in Asia Orientale, un’area che Pechino considera «casa propria» e dalla quale ha intenzione di tenere il più alla larga possibile l’influenza di Washington. Un’ipotesi che sembra allontanarsi, considerando che nella giornata di ieri Donald Trump, prima del comunicato di Pyongyang, in una telefonata coi vertici dell’amministrazione sudcoreana aveva rassicurato Seul circa l’avanzamento del progetto antimissilistico Thaad entro i confini sudcoreani, in fase di allestimento già dal mese di marzo.

SECONDO IL FACENTE funzioni del premier sudcoreano Hwang Kyo-ahn, durante il meeting di Mar-a-Lago «Trump ha detto di aver avuto con Xi una discussione dettagliata circa la serietà del problema del nucleare in Corea del Nord e come rispondergli, comunicandogli anche la posizione degli Stati Uniti circa il dispiegamento del sistema Thaad». Cioè, gli Stati Uniti non si muovono di un millimetro e anche se il sistema antimissilistico rappresenta per Pechino una «minaccia alla stabilità dell’area», il Thaad sarà presto operativo.

SE DONALD TRUMP mostra al momento di non voler sentir ragioni, la Cina potrebbe però aver trovato in Jared Kushner un canale privilegiato capace di influenzare il presidente degli Stati Uniti. Come si legge in un lungo ritratto pubblicato dal New York Times, sarebbe proprio il genero di Trump – 36 anni, marito di Ivanka Trump e tra gli advisor più influenti di The Donald – l’«uomo cinese» alla Casa Bianca. A lui si deve, infatti, l’organizzazione della telefonata riparatrice tra Trump e Xi all’indomani del pasticcio di Taiwan, quando Trump fece infuriare Pechino mettendo in discussione la sacra «One China Policy» della Repubblica popolare cinese.

L’inaspettata accelerazione del confronto tra Trump e Kim sembra aver costretto la Cina al ruolo di ago della bilancia per scongiurare un’escalation della tensione dalle conseguenze imprevedibili.