Nel corso di cinquant’anni, Pupi Avati si è ormai imposto come uno dei più riconoscibili registi italiani attraverso un gran numero di film nei quali le molte facce del suo partecipe autobiografismo, quasi un’archeologia della memoria sempre à rebours, si apre al più vasto scenario emiliano-bolognese, rivissuto tra apparenza e realtà, visibile e invisibile, segreti e contraddizioni.

Ma, autore visceralmente legato alle proprie radici, è diventato anche con il fratello Antonio il titolare di una factory attiva al cinema e nella fiction tv con la partecipazione dei figli Tommaso e Mariantonia. L’immagine della bottega artigiana coincide del resto con «Balsamus, l’uomo di Satana» e «Thomas… gli indemoniati», due clamorosi insuccessi che sul finire degli anni sessanta segnano l’avvio dell’avventura cinematografica dei fratelli Avati nel segno del grottesco e del bizzarro, rischiando di affossare per sempre il sogno bolognese della Hollywood sul Reno.

A sbloccare la situazione è soltanto la scelta coraggiosa di Ines Vigetti, la madre leonessa di Pupi e Antonio, di trasferirsi armi e bagagli nella capitale per aprire a via del Babuino una pensione con cui mandare avanti la baracca. Se si esclude la tormentata collaborazione alla sceneggiatura del pasoliniano «Salò o le 120 giornate di Sodoma», agli inizi dell’esperienza romana è soprattutto con i b-movies che Pupi entra in contatto, partecipando, accreditato o no, agli scenari di «Il figlio della sepolta viva» e di «Lucrezia giovane», entrambi di Luciano Ercoli/André Colbert, «Il bacio» di Mario Lanfranchi, «Il cav. Costante Nicosia demoniaco, ovvero Dracula in Brianza» di Lucio Fulci, senza contare i Caroselli del Cynar con Alberto Lionello che risalgono allo stesso periodo.

Il film della svolta è «La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone», che mette la parola fine al forzato esilio dal set, dove accanto a Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio figurano anche i bolognesi Gianni Cavina, Giulio Pizzirani, Bob Tonelli, Pina Borione, in una storia tipicamente avatiana imparentata con le origini: «Un nonno ateo che venerava l’Angelo custode, una zia miracolata, un padre collezionista di quadri antichi, enormi, buissimi, misteriosi, dai quali, attraverso docce di trementina, affioravano dame, cavalieri, costellazioni di angeli e di santi, veneri callipige». Ma la prima grande affermazione arriva l’anno dopo con «La casa dalle finestre che ridono», che diventa quasi subito un cult del mystery all’italiana (Pupi Avati. Sogni, visioni, incubi, pp. 364, euro 20,00).