«Bene, possiamo dire che il famoso giudice di Berlino esiste davvero. La sentenza della Corte di Strasburgo riconosce quanto accaduto alla scuola Diaz come episodi di tortura, anche se dimostra un’incapacità nazionale di riconoscerli come tali». Mauro Palma è stato per anni il presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e guarda con soddisfazione alla decisione dei giudici europei. Anche se, ammette, nella sentenza non mancano motivi di riflessione e autocritica.

«Il quadro che emerge del Paese non può che farci guardare allo specchio in maniera dura perché nella sentenza si ricorda come nel 2006, rispondendo a una richiesta di chiarimenti proprio su quanto accaduto al G8, il governo spiegò che in Italia manca un reato specifico perché la tortura è lontana dalla nostra mentalità. Una risposta che lascia esterrefatti e che mi sconvolge, perché tra le tre situazioni di Genova, la piazza, la Diaz e Bolzaneto, l’operazione Diaz venne pianificata facendo così intervenire proprio il reato di tortura».

mauro palma

Ci sono voluti 15 anni e un’istituzione straniera, per quanto europea, perché si arrivasse a pronunciare la parola tortura sui fatti di Genova.

E’ vero, ma tenga presente che la sezione che ha emesso la sentenza è presieduta da un giudice italiano, anche se in questo caso non presiedeva lui. Poi sì, c’è un elemento sovrannazionale che ci giudica e se vuole questa è la linea d’ombra tra la positività della decisione e la constatazione della nostra incapacità interna a risolvere il problema.

La Corte parla di responsabilità della polizia per non aver contribuito a identificare gli agenti autori delle violenze. Un atto di accusa molto preciso.

Dice anche che sono state fornite foto molto vecchie degli agenti. Fa parte di questa opera di scarsa trasparenza anche la falsificazione dei verbali e la conferenza stampa successiva all’irruzione nella scuola. Tutto questo è proprio di un sistema corporativo che si chiude a riccio e commette reati. Vede, quando si tratta del singolo episodio, della persona picchiata si può anche pensare, seppure con le molle, al classico caso della mela marcia. Ma qui hai un sistema che difende se stesso falsificando. E non può essere la decisione del singolo.

Un modo per abbattere il sistema di cui parla è il codice identificativo per gli agenti, la cui approvazione trova però sempre molta resistenza. A cosa è dovuta?

Ho parlato più volte con i responsabili delle forze dell’ordine e l’opposizione è sempre una: il rischio che l’agente possa in qualche modo vedere messa in pericolo la propria incolumità. A me sembra una cosa non reale. Il codice identificativo lo possiamo anche cambiare o far ruotare con una certa facilità e si possono tenere molto segrete le modalità di decriptazione facendo in modo che siano fruibili solo da parte dell’autorità giudiziaria. Gli agenti replicano dicendo di temere comunque di diventare dei bersagli. Mi sembra l’espressione di una cultura arretrata. Io parto da un principio: la trasparenza non è solo massima garanzia di legalità, ma anche massima garanzia di tutela per chi agisce in un lavoro difficile come quello delle forze dell’ordine. Più si è trasparenti meglio è anche per le forze dell’ordine, che così vengono tutelate rispetto ad accuse ingiuste. Ma il messaggio che invece passa sempre è che l’opacità garantisce, tutela. L’opacità non garantisce niente e nessuno, neanche le forze dell’ordine.

Lei ha parlato di culture arretrate. Ma c’è una cultura di violenza tra le forze dell’ordine e, quindi, di impunità?

Più che di violenza parlerei proprio di impunità. Quando devi fare delle promozioni e scegli di promuovere agenti che sono sotto inchiesta per violenza e maltrattamento di persone in custodia, mandi un segnale culturale al giovane agente che è dirompente.

Da Strasburgo arriva anche l’accusa all’Italia di non avere una legislazione adeguata, e il riferimento esplicito è al reato di tortura.

Ricordiamoci che soltanto quattro anni fa, quando ci fu da parte dell’Onu la precedente revisione degli obblighi relativi ai diritti umani da parte del nostro paese, ancora una volta l’Italia si presentò a Ginevra dicendo che da noi non c’è bisogno di istituire il reato di tortura, perché esistono altre fattispecie che permettono di perseguire le condotte violente. Da allora abbiamo avuto una serie di prove tangibili che questo non è vero e abbiamo visto come perseguire con figure di reato deboli esponga alla prescrizione.

C’è quindi il rischio che episodi simili si ripetano?

Sì. Credo e spero che Genova sia stata il punto di caduta più basso di un trend. Ma a livello di singoli individui può sempre capitare. E poi penso che ci sia anche molta dimenticanza da parte dell’opinione pubblica.