La parola che Matteo Salvini ripete più spesso nella miriade di trasmissioni televisive alle quali viene invitato è ‘pulizia’: lo fa abilmente, con il tono di chi dice una cosa scontata, di buon senso, una cosa che in un paese normale, per riprendere il noto e niente affatto ingenuo artificio retorico, non ci sarebbe nemmeno bisogno di richiamare. Se il paese è un po’ come la casa, dice Salvini, è chiaro a tutti che lo vogliamo pulito, ordinato; vogliamo sapere dove trovare il pane, le pentole, i calzini e le camicie stirate, dove buttare le immondizie, le cose che non servono più, che puzzano, che non ha senso tenersi in casa. Insomma, la parola ‘pulizia’, con tutti i suoi correlati legati appunto all’ordine, alle classificazioni (le mutande non vanno nello stesso cassetto dei maglioni), alle disinfezioni (non si possono mettere i calzini ammuffiti e umidi insieme alle lenzuola pulite e profumate), ai controlli e alle precauzioni, è una di quelle parole che può essere considerata, in un senso piuttosto preciso, come ‘ideologica’; come una parola, cioè, che nel suo stesso venire pronunciata produce una costellazione valoriale evidentemente e immediatamente positiva, tale per cui l’opposto di ciò che essa rappresenta è automaticamente un disvalore a cui nessuno può sensatamente richiamarsi. ’Pulizia’ appartiene insomma a quelle parole che, in modo ovvio e senza troppa necessità di essere discusse incorporano un’etica indiscutibile, una visione del mondo necessariamente buona e ovviamente condivisibile.
In questa prospettiva la parola ‘pulizia’ appartiene a quelle parole che producono e proiettano un immaginario etico, estetico e persino escatologico, che non può non essere pensato se non come desiderabile. Un po’ come accade con altre parole che di questi tempi sembrano imporsi come imperativi morali: trasparenza, valutazione, merito, efficienza; a cui si potrebbero aggiungere concetti a questi imparentati come, ad esempio, semplificazione, velocità, efficacia, ovvero tutte quelle parole rispetto alle quali l’unica vera giustificazione su cui esse contano per imporsi è il fatto che il loro opposto è avvertito come un disvalore.

Sono tutte parole decisamente trasversali e perciò tecnicamente prive di opposizione. ‘Pulizia’ è stata la parola d’ordine che ha accompagnato i magistrati responsabili di avere scoperchiato il malaffare politico nei primi anni ’90 del secolo scorso a Milano: con l’inchiesta chiamata, appunto e non a caso, ‘Mani pulite’. Ed è stata la parola alla base di più o meno tutti i movimenti anti-sistema che hanno attraversato e attraversano la vita italiana di questi ultimi trent’anni, dal dipietrismo al girotondismo, dal renzismo al grillismo, dal popolo viola o da quello arancione, fino appunto a questo neoleghismo nazionale, e non più regionale, di Salvini.

‘Pulizia’ è, peraltro, anche la parola chiave di un modello di giornalismo che viene avvertito come il più rappresentativo di questi anni e che se da una parte ha le sue espressioni più caciarone e a volte ridicole in trasmissioni come Striscia la notizia, Le Jene o La Gabbia, trova poi le sue manifestazioni più raffinate nel travaglismo, nelle inchieste di Report o nella denuncia istituzionalizzata e classicamente borghese di Stella e di Rizzo sul Corriere della Sera.

Sottolineare questa trasversalità non comporta ridurre la pluralità degli stili e soprattutto la differenza di visione etica e politica dei diversi attori in campo a una unità indistinta e indifferenziata. Certo che no. Contemporaneamente, però, non vedere il filo, a volte esile e fragile, a volte solido e resistente, in grado di collegare fenomeni diversissimi e a volte agli antipodi rischia di essere altrettanto obnubilante. Non si tratta dunque di raggruppare cose profondamente diverse dentro la comoda, perché di fatto indeterminata, cifra del populismo: si tratta piuttosto di vedere cosa tiene insieme retoriche apparentemente differenti e divergenti, in realtà radicate all’interno di uno stesso humus linguistico e, ancora di più, si tratta di leggere una sorta di attitudine sanzionatoria e fustigatoria, nella quale visioni spesso antitetiche e fra loro in competizione sembrano toccarsi, congiungersi, nutrirsi vicendevolmente e condividere, almeno sul piano della postura (che è però un piano decisivo) più di quanto si trovino a condividere nei contenuti espliciti attraverso cui, invece, si differenziano.
Quando dice ‘pulizia’ Matteo Salvini dice in realtà niente e una miriade di cose. Niente, perché come tutte le parole a cui non è possibile contrapporsi, anche questa è, di fatto, priva di significato determinato; una miriade di cose, perché parla, appunto, con una sola parola, a passioni diverse, che vanno dalle grida scandalizzate contro la corruzione al bisogno tribale di vendetta nei confronti del presunto colpevole, dal terrore ancestrale nei confronti dello straniero all’indignazione dell’anziano per i cani che sporcano i marciapiedi, dalla rabbia per la mancanza di parcheggi a quella rivolta contro chi parcheggia in seconda fila.

E tra questa miriade di cose a cui la parola ‘pulizia’ rimanda c’è evidentemente un elemento che connette il linguaggio di Salvini al linguaggio classicamente fascista. ‘Pulizia’ è, infatti una delle parole (e Salvini ne appare del tutto consapevole, visto che non fa nulla per aprire spazi di distinzione e differenziazione che potrebbero sembrare cavillosi e rompere la limpida coerenza del suo discorso) di cui si nutre la retorica fascista, la quale è, come noto, in un senso tutt’altro che banale, una retorica della bonifica, della salvaguardia del proprio, della salute e quindi della medicina come potenza estirpatrice della malattia, dell’efficienza (del corpo individuale, come dei corpi sociali): una retorica, come è stato mostrato da molti studi, della moralità e della sicurezza, della ruralità e della ruvidità.

A questa retorica fascisteggiante senza essere esplicitamente fascista non ci si può però opporre semplicemente con i ’distinguo’ o, peggio, cercando parole d’ordine meno compromesse e tuttavia rette dallo stesso meccanismo. La retorica renziana, in questo senso, sembra muoversi dentro lo stesso spazio logico di quella di Salvini. Parlare della buona scuola, delle buone pratiche, delle decisioni veloci e semplici, delle certificazioni di qualità estese a tutti gli ambiti della nostra esistenza, dei bollini del merito e dell’eccellenza, significa infatti, esattamente come accade nei discorsi sulla normalità, la pulizia e la sicurezza, porre già da subito l’oppositore dentro uno spazio di disvalore, averlo già collocato dentro una situazione che si vuole insostenibile; come se chi si oppone al sistema valutativo meritocratico che regge la visione della scuola renziana fosse dunque qualcuno che sta dalla parte della cattiva scuola; come se chi ritiene che non si possano standardizzare meccanicamente gli interventi in modo asetticamente oggettivo, indipendentemente dalle soggettività in gioco, fosse un sostenitore delle cattive pratiche; come se dubitare della retorica dell’eccellenza volesse dire stare dalla parte della grossolanità o della mediocrità.
La retorica renziana non è certo assimilabile e identificabile alla retorica parafascista di Salvini, ma è una retorica che funziona comunque nello stesso modo. E non ci si oppone proponendo un’altra retorica dello stesso tipo, ma innanzitutto smascherandola, evidenziandone gli effetti potentemente ideologici, portandone in superficie i non detti, spesso meno ambigui e intoccabili, che, più o meno consapevolmente, le sostengono e le fondano.