La partita di ping pong fra Madrid e Barcellona è destinata a durare ancora. Come ampiamente previsto, la risposta che ieri mattina Carles Puigdemont ha mandato alla richiesta del governo Rajoy di chiarire se avesse dichiarato o meno l’indipendenza è stata ambigua. Proprio come il discorso pronunciato una settimana fa nel Parlament catalano, dove aveva dichiarato la repubblica catalana per poi sospenderla otto secondi dopo. O meglio, non sospendere un bel niente, perché in realtà, secondo quanto previsto dal copione, doveva essere il Parlament a votare la dichiarazione. Ma comunque, continuando a giocare su quest’ambiguità, il presidente catalano ha risposto a Rajoy con una lettera di quattro pagine in cui lo invita a prendere atto della realtà politica catalana ma allo stesso tempo senza voler fare passi definitivi.

USANDO LA FORMULA «la sospensione del mandato politico sorto dalle urne il primo ottobre dimostra la nostra ferma volontà di trovare la soluzione e non lo scontro», Puigdemont evita di rispondere Sì o No alla richiesta e offre due mesi di tempo per intavolare un dialogo. La lettera si chiude con due richieste molto specifiche: allentare la presa della repressione della polizia, della giustizia e quella finanziaria (i conti della Generalitat sono ancora controllati dal governo) e chiedendo un incontro faccia a faccia al presidente del governo spagnolo. Una risposta scivolosissima, che scontenta, e molto, alcuni dei suoi compagni di viaggio, ma che non dà a Rajoy alibi per poter applicare immediatamente le misure più restrittive, come il famigerato 155 che commissarierebbe la Catalogna.

LA VICEPRESIDENTE del governo, Soraya Saéz de Santamaría (Rajoy è partito per la Galizia, colpita da una serie di disastrosi incendi dolosi), ha risposto a stretto giro dicendo che Puigdemont deve dare una risposta chiara, e per farlo ha tempo fino a giovedì. Il giorno fissato da Rajoy per la «rettifica» sull’indipendenza. I tempi paiono allungarsi ancora mentre i toni si abbassano impercettibilmente.

Dietro questo duello di parole, si intravede qualche manina europea: pur in mezzo a smentite ufficiali sembra che qualcuno stia cercando di mediare fra Rajoy e Puigdemont per evitare l’escalation finale. Il Psoe comunque rimane saldo accanto al Pp: tanto da chiarire che l’applicazione dell’articolo 155 sarà concordata con loro. Se alla fine il governo dovesse decidere di attivarlo (dopo aver ricevuto l’ok del senato), sembra che si possa limitare a sciogliere il Govern e a convocare nuove elezioni catalane. Una soluzione sgradita a molti catalani, ma tutto sommato meno traumatica di molte altre messe in campo in questi giorni. Ma non è detto che accada. Innanzitutto perché non sarebbe una soluzione: i partiti indipendentisti potrebbero tornare a vincere e la storia ricomincerebbe (a meno che non venisse applicata la ricetta radicale del capo del Pp in Catalogna Xavier García Albiol che chiede di fare come in Euskadi e mettere fuorilegge i partiti filo-Eta).

ANCHE SUL FRONTE giudiziario, le cose non stanno migliorando. I presidenti delle due associazioni indipendentiste, Òmnium e Anc, sono stati mandati in carcere preventivo dalla giudice, mentre il maggiore dei Mossos Josep Lluis Trapero, e l’intendente dei Mossos sono stati lasciati a piede libero. Ieri erano interrogati tutti dall’Audiencia nacional e accusati dell’obsoleto reato di «sedizione». A Trapero è stato ritirato il passaporto e ha l’obbligo di comparire ogni 15 giorni. Le accuse, per il momento, si riferiscono al 20 e 21 settembre, quando una folla di manifestanti cercò di impedire alla Guardia Civil di portare a termine le perquisizioni e gli arresti di alcuni funzionari del governo catalano.

Intanto l’ex presidente Artur Mas, che è tornato ultimamente a apparire in pubblico per difendere Puigdemont (che proviene dal suo stesso partito), ieri ha depositato alla Corte dei conti spagnola 2,2 milioni di euro per coprire parte dell’astronomica cauzione da 5,2 milioni, la cifra che i giudici calcolano dovrebbe restituire alle finanze pubbliche nel caso dovesse essere condannato per aver organizzato il referendum del 9 novembre 2014.