«La partitura non è l’opera» scrive nel programma di sala Marco Angius, direttore della nuova interpretazione del Prometeo di Luigi Nono, andata in scena venerdì scorso nella chiesa di San Lorenzo, a Venezia: la stessa dove venne eseguito per la prima volta, diretto da Claudio Abbado, il 25 settembre del 1984. Lo si potrebbe dire di qualunque partitura musicale, perché essa condivide con il teatro il suo affidarsi all’esecuzione, non alla sola pagina; ma per il Prometeo di Luigi Nono, «tragedia dell’ascolto», questo vale in modo speciale.

NON SE NE COMPRENDE appieno, infatti, non solo la bellezza musicale, ma il senso di questa bellezza – che è quanto di meno neoclassico si possa immaginare – se non la s’inserisce in quel clima di furore utopistico che era il segno della cultura del tempo.
Il Novecento, secolo terribile, di orrori forse mai visti prima, è stato tuttavia, connotato non tanto dalle speranze quanto dalle aspirazioni, da progetti di radicali cambiamenti, da tentativi di raddrizzamento se non del legno storto dell’umanità almeno delle storture che la storia ci aveva inflitto. Di certo, non si rasentò il sogno di quella Repubblica ideale, che da Platone passò a tutta una schiera di filosofi e artisti che traversarono il Rinascimento prima e l’Illuminismo poi, traghettandoci verso la modernità, ma – nei casi migliori – si rese visibile volontà di proporre un modello realizzabile di società, una concreta attuazione del bello e del vero, qui e ora, sulla terra, così come lo avevano prefigurato in tanti, da Vico a Marx.

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Nel suono una essenza cinetica: le «altre continuità» di Luigi NonoLuigi Nono lavorò a questo suo progetto, a poco a poco, per tutta la vita: dai Canti di Didone arrivò al Prometeo passando per Al gran sole carico d’amore, e a quella pagina densa, misteriosissima, ma così carica di significati che è il quartetto Fragmente – Stille, an Diotima: perché la sua musica, per quanto sembri incongruo attribuire significati alla musica e soprattutto alla musica strumentale – ne ha sempre uno. E il Prometeo ne è la sintesi. Nel 1984, la chiesa di San Lorenzo fu occupata da una struttura lignea progettata da Renzo Piano, e durante l’esecuzione Emilio Vedova aveva immaginato avventure della luce – come nei suoi quadri – che drammatizzavano l’ascolto: su questo, sull’ascolto, Massimo Cacciari, autore o piuttosto collettore dei testi, e Luigi Nono intendevano concentrare l’attenzione del pubblico. Era una stagione già distratta da un eccesso di superfluità, dunque lo sforzo era indirizzare la mente sul significato che derivava, prima di tutto, dall’ascolto in sé e per sé. Musica e linguaggio hanno in comune la materia sulla quale lavorano: il suono. Perché non supporre che il suono sia di per sé portatore di significato, già prima di articolarsi in linguaggio? Se intono, che so, la sillaba lo, e lascio figurare all’ascoltatore che sia parte della parola logos, non mi precipiterà addosso tutta la carica, e la storia che questo termine possiede per un occidentale? I testi collazionati da Cacciari vanno da Eschilo a Hölderlin, da Esiodo e Sofocle a Goethe a Schönberg (suocero di Nono: anche gli affetti familiari sono elementi di questa utopia liberatrice), e a altri ancora. Non si dimentichi che sulla figura di Prometeo Beethoven compose le musiche per un balletto, fondatore di una nuova società, e che la danza finale costituisce il tema del finale nella sinfonia Eroica.
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LA MUSICA di Nono, naturalmente, è radicata in numerose e diverse memorie musicali: la polifonia fiamminga di Johannes Ockeghem, per esempio, o il madrigale drammatico cinque-seicentesco, che con la sola voce realizza l’azione teatrale. Oggi la struttura lignea di Piano è stata sostituita da una impalcatura metallica che rende più nette le linee del contrappunto, sia vocale sia strumentale.

Un’apparecchiatura elettronica, costruita apposta da Alvise Vidolin, provvede – come nel 1984 – a distribuire e a far circolare il suono per la navata della chiesa, modificandolo dal vivo. L’elaborazione elettronica si rivela dunque non una sostituzione, ma un ampliamento di quella musicale. Poiché nella vasta area dell’esecuzione non tutti sono visibili – anche se dispositivi video permettono la connessione tra le parti – un secondo direttore, Filippo Perocco, guida la compagine.
Tutti i numerosi interpreti hanno contribuito meravigliosamente al fascino di una musica che scuote corde profonde, sia emotive sia intellettuali. Vanno ricordati, almeno, il flauto di Roberto Fabbriciani; tuba, trombone, eufonio di Giancarlo Schiaffini; il violoncello di Michele Marco Rossi; il Coro del Friuli Venezia Giulia OPV e l’Orchestra di Padova e del Veneto. A prova della sua indipendenza dal tempo trascorso, quarant’anni dopo l’esordio, questo che era già l’approdo di un lungo percorso di pensiero musicale ha strappato ancora al pubblico una accoglienza trionfale e un entusiastico applauso.