«L’unico indiano buono è l’indiano morto», recitava il vecchio adagio razzista degli wasichu (i visipallidi invasori), ma il più grande genocidio della storia umana è stato declassato, dai vari governi statunitensi, ad un banale, impunibile e impunito «destino Manifesto». I massacri, le deportazioni, le sterilizzazioni di massa, le leggi razziali, la reclusione in ghetti chiamati «riserve» e le assimilazioni forzate spariscono nei negazionismi degli sceriffi planetari, per lasciar posto a festeggiamenti celebrati in pompa magna, rilanciati nel 1992 in occasione del cinquecentenario della cosiddetta «scoperta dell’America» («Columbus day»), che continuano ad offendere sia le popolazioni aborigene che a mistificare la verità storica.

Leonard Peltier è oggi il simbolo della resistenza di quei popoli aborigeni oppressi da più di 500 anni. Amerindiano di ascendenza Ojibwa Lakota, Peltier è stato tra i primi fondatori dell’Aim (American Indian Movement), movimento nato per sostenere e difendere le popolazioni native del Nordamerica. Oggi, quasi settantenne, Leonard sta scontando una condanna a 2 ergastoli ed è in carcere da 38 anni.

La sua vicenda risale al 1973, cioè da quando oltre 300 nativi iniziarono una protesta contro gli abusi e gli spossessamenti dei territori Lakota, soprattutto dopo la scoperta di enormi giacimenti di uranio nell’area di Sheep Mountain. Venne perciò chiesto aiuto a Peltier e agli attivisti dell’Aim, per impedire queste violazioni. Due anni dopo, nel giugno del 1975, durante un festa religiosa nella riserva dei Lakota Oglala, a Pine Ridge, alcune auto dell’Fbi prive di targa circondarono la zona e iniziarono una sparatoria contro la gente inerme. I Lakota risposero al fuoco e alla fine sul terreno rimasero tre corpi: due agenti dell’Fbi, Ronald A. Williams, Jack R. Coler e un indiano, Joe Stuntz. Naturalmente per il nativo ucciso non venne aperta alcuna inchiesta, mentre per i due agenti furono indagate tre persone, tra cui Leonard Peltier. Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Lakota era già irrimediabilmente segnato, poiché il processo si svolse a Fargo, città storicamente nota per essere anti-indiana e molti testimoni furono pesantemente minacciati dall’Fbi, per non parlare delle versioni contrastanti degli agenti accusatori. Il dibattimento fu una farsa presieduta da un giudice razzista e una giuria composta esclusivamente da gente bianca, che non esitò a condannare Peltier al carcere a vita.

Da allora la causa di Leonard è stata sostenuta e divulgata in ogni parte del mondo (spesso sul manifesto) da normali cittadini, associazioni e personalità quali il Dalai Lama, Desmond Tutu o artisti come Robbie Robertson, Bruce Springsteen, Little Stevens, Pete Seeger e tanti altri. La sua vicenda è stata narrata anche nel film documentario del 1998, «Incident a Oglala», per la regia di Michael Apted. Ma la campagna in suo sostegno ancora continua, sia negli Stati uniti che in Europa: lo scorso 6 febbraio, a Barcellona, è infatti iniziato un presidio permanente davanti al Consolato degli Usa, mentre in altri paesi europei è stata promossa una nuova raccolta di firme, con un appello al presidente degli Stati uniti. Già negli anni ’90 Clinton aveva deciso di firmare per la liberazione di Peltier, ma le proteste dell’Fbi lo hanno fermato. Chiediamo ora ad Obama di fare ciò che Clinton non ha avuto la forza di fare. In rete c’è la petizione per chiedere la grazia: https://secure.avaaz.org/en/petition/Freedom_for_Leonard_Peltier_Grant_Clemency_Now/

In carcere Leonard è diventato un bravo pittore autodidatta, cercando di fare qualcos’altro che non fissare le quattro pareti che ne imprigionano il corpo. I volti del suo popolo, gli animali sacri e la riscoperta delle sue radici ancestrali gli danno una fede e una forza interiore che gli permettono di resistere, di aprire varchi di colori attraverso il muro, di guardare oltre il loculo di cemento in cui è costretto ad abitare. In una sua poesia, intitolata «Peccato aborigeno», Leonard denunciava la repressione fisica e anche culturale perpetrata contro la sua gente: «…siete colpevoli solo di essere voi stessi / di essere indiani / di essere umani / è la vostra colpa a rendervi sacri».

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Sit-in a Roma

In occasione della visita del presidente Obama, in questi giorni a Roma, a Roma, presidio del comitato di solidarietà a Leonard Peltier in occasione della visita del presidente Barack Obama. La mattina in piazza San Pietro e dalle 16,00 davanti all’ambasciata Usa di via Veneto. Partecipano alle proteste il movimento No Muos, la confederazione Cobas, il Coordinamento universitario e l’Unione degli Studenti. per informazioni su iniziative e manifestazioni pro-Peltier: cslpbarcelona@gmail.com