Il romanzo di intreccio ha un’infinita capacità di resistenza: discusso, contestato, liquidato a oltranza, continua nondimeno a prosperare, e non solo nelle articolazioni banali della letteratura di evasione. Anche nel primo Novecento, nel periodo in cui gli autori cosiddetti «modernisti» (peraltro diversissimi) scardinano radicalmente costrizioni e seduzioni della trama, altri seguitano invece a riproporle, e spesso in modi originali e imprevedibili.

ra questi Sylvia Townsend Warner, scrittrice e poetessa inglese molto attiva tra gli anni venti e i settanta dello scorso secolo, antifascista militante, omosessuale dichiarata, che fin dalle prime opere scortica certezze e ipocrisie della società britannica, non nelle forme scabrosamente esplicite di Lawrence o di Radclyffe Hall, ma attraverso vicende di esclusione e disagio dalla strutturazione insolita: come quella realistico-fantastica di Lolly Willowes, appena riproposto nella collana «gli Adelphi» (traduzione di Grazia Gatti, pp. 176, euro 11,00), o quella, tutta imbastita di rinvii intertestuali, di Il cuore vero (datato 1929), ora tradotto per la prima volta (da Laura Noulian, pp. 222, euro18,00).

Ambientato nel 1873, il romanzo trasferisce nell’Inghilterra vittoriana – come l’autrice spiega in una prefazione aggiunta successivamente – il mito di Amore e Psiche narrato nelle Metamorfosi di Apuleio; ma si riallaccia con evidenza ancora maggiore a noti archetipi ottocenteschi, più per discostarsene che per imitarli, sollecitando aspettative successivamente disattese. La protagonista, la sedicenne Sukey, esce, proprio come la Jane Eyre di Charlotte Brontë, da un orfanotrofio femminile che penalizza le sue ospiti con un vitto inadeguato e con terrificanti prediche sulla collera divina; ma, ben più docile e ignorante, impiegata come domestica in una modesta fattoria dell’Essex, non è destinata ad avventure eccezionali. D’altra parte, se il suo «talento per l’obbedienza», la sua devozione religiosa e il suo zelo nelle faccende (lustra le gambe delle sedie accarezzandole come se fossero «gambe in carne e ossa») la avvicinano alla Félicité di Un cuore semplice di Flaubert, opera evocata fin dal titolo, non rimane chiusa come lei in una sorte di immobilità e di privazione.

La sua vita è infatti presto movimentata dall’incontro con Eric, figlio di un ecclesiastico, esiliato nella fattoria perché «idiota», epilettico e puro al pari del Myskin di Dostoevskij (anche se assai più semplice e rozzo); il loro rapporto, come quello di Amore e Psiche, sboccia immediato e irresistibile «in una specie di oscurità», ma è presto ostacolato dai preconcetti e dalle gerarchie sociali, in particolare dall’indignazione della madre di Eric, corrispettivo della Venere del mito (come già emerge dal suo cognome, «Seaborn», nata dal mare), apparentemente benefattrice soavissima, in effetti egoista e rigida, che si affretta a separarli.
A questo punto però Sukey si scrolla dal peso opprimente della rassegnazione cristiana, iniziando a vedere il futuro non più come una dimensione «sulle cui gioie non poteva avanzare alcun diritto, sui cui terrori non poteva esercitare alcun controllo», ma come «una strada» da «percorrere seguendo la propria volontà»; e, abbandonata la fattoria, incomincia a errare alla ricerca di un modo per ricongiungersi a Eric.

Se è ispirato a quello della Psiche apuleiana, il suo pellegrinaggio ricalca soprattutto le linee del romanzo picaresco e del conte philosophique: Sukey è una Candide al femminile, ancora più disarmata, che crede di poter restare incinta in virtù di qualche bacio e scambia una casa di tolleranza, in cui ha trovato rifugio provvisorio, per l’abitazione di una famiglia allegra e rumorosa, meravigliandosi di quante figlie vi dimorino e di quanti figli vi passino occasionalmente. Attraverso la sua prospettiva ingenua il romanzo (che applica felicemente la tecnica dello straniamento messa a fuoco dai formalisti russi) porta a galla con energica ironia le finzioni e il convenzionalismo del tempo, i rapporti di forza e il malcontento complessivo loro sfondo: Sukey giudica lo sguardo della maîtresse del bordello identico a quello di un vescovo conosciuto all’orfanatrofio, «altrettanto misurato e perentorio»; osserva con stupore i fedeli di una chiesa ascoltare placidamente, come parte della routine domenicale, le invettive di un predicatore sulle iniquità del presente; trova lavoro presso una brava madre di famiglia che si diverte con le notizie luttuose, specie se si tratta di «servette inguaiate che si buttano nel lago», o di «vecchi che invitano il Signore a por fine alle loro sofferenze».

Su tutta la realtà rappresentata grava una minaccia di violenza che prende forme varie, dall’iroso scatto di un toro contro il suo padrone all’occhiata di gelido disprezzo con cui una componente della Casa Reale distrugge fulmineamente le sicurezze e la stessa identità di Mrs. Seaborn; su tutte le esistenze si allunga una «rete universale di sventura» che non risparmia il personaggio storico messo in scena verso la fine, una regina Vittoria né crudele né magnanima, solo distrattamente benevola, tipico esempio di centro vuoto del potere, segnata dall’«aspetto indelebile del dolore».

Per l’ambientazione prevalentemente rurale e i casi di sopraffazione e tristezza allineati, il testo richiama un altro, più prossimo, modello ottocentesco, la produzione di Thomas Hardy; ma, diversamente da quella, controbilancia il pessimismo di insieme con un’esaltazione intensa della «natura sconvolgente dell’amore», attestata, oltre che dal legame di Sukey e Eric, dall’antiromantica quanto travolgente passione che scatta tra una giovane acidissima e un fattore grossolano; e spesso estesa a un rapporto di ebbrezza panica con il paesaggio, sia quello delle paludi dell’Essex, in cui gli odori mescolati del mare e della terra trasmettono «una malinconia che è desiderio», o quello di rigogliosi campi primaverili fioriti di biancospini e ranuncoli, o anche quello del congestionato Covent Garden londinese, che nella luce dell’alba ha «i colori del petto di un piccione».

Non a caso, se Sukey, nel rimando intertestuale più palese, fantastica di chiamare Dolore un figlio maschio, proprio come fa la protagonista eponima di uno dei romanzi di Hardy, Tess dei d’Urberville, subito dopo pensa a una figlia femmina da chiamare invece Gioia. Gli emarginati come lei e Eric, esclusi dalla società ma in sintonia profonda con la vita, garantiscono ancora una speranza di salvezza: secondo una tradizione remota, certo, ripresa però in modo lieve e mai assertivo, tale da infondere all’opera una dolcezza consolatoria sobria e sommessa, immune da derive melense. Non tale però da assicurarle potenza sufficiente: per quanto suggestiva, la narrazione resta di fievole respiro. La grande letteratura dell’epoca, evidentemente, si stava muovendo in altre direzioni; senza però riuscire a neutralizzare il pervicace gusto dell’intreccio, che avrebbe continuato a combinarsi con quello (dosato in gradi di riuscita assai differente) del rinvio citazionistico.