Il congresso di Podemos è finito il 12 febbraio, ma il vero finale era atteso per domenica scorsa, data della prima riunione del Consiglio cittadino statale (il “parlamentino” interno eletto dal congresso). La corrente di Iglesias, al congresso, aveva ottenuto il 50% dei voti alla propria lista e il 60% dei posti nel Consiglio, quella di Errejon il 33% dei voti e il 37% dei posti, quella anticapitalista il 13% dei voti e il 3% dei posti. Il nuovo Consiglio è quindi composto da 37 componenti «pablisti», 23 «errejonisti», 2 anticapitalisti, i 15 segretari regionali (in maggioranza vicini a Iglesias) e il segretario generale. In teoria, con una maggioranza così netta, Iglesias avrebbe potuto estromettere la componente di Errejon da tutti gli incarichi principali. L’attesa era quindi relativa a due possibili esiti: il primo era che Iglesias ed Errejon trovassero un accordo che li facesse convergere su un’ipotesi condivisa, delineando la possibilità di un percorso comune su nuove basi; il secondo era che il conflitto interno culminato nel congresso proseguisse e si sancisse un sostanziale divorzio. Si trattava quindi di un momento decisivo per la definizione dei nuovi equilibri del partito e per la sua stessa prosecuzione come progetto unitario.

Il Consiglio cittadino nomina infatti l’organismo esecutivo del partito (la Ejecutiva, che equivale a ciò che nei partiti italiani viene chiamato segreteria), il luogo della effettiva direzione politica. Errejon era arrivato al congresso da “numero 2” della Ejecutiva e da titolare delle due cariche più importanti dopo quella del segretario generale: segretario politico (quasi un leader-bis) e portavoce del gruppo parlamentare. Due cariche di grandissimo peso interno e forte visibilità esterna.

Iglesias e la sua corrente non erano favorevoli a rinnovargli nessuna di queste due cariche, mentre Errejon, dopo il congresso, aveva chiesto esplicitamente di essere confermato almeno nel ruolo di portavoce parlamentare, oltre che di avere il 40% dell’Ejecutiva. La difficoltà quindi, per la corrente di Iglesias, era quella di raggiungere i propri obiettivi (cambiare il portavoce parlamentare e avere una maggioranza solidissima nell’Ejecutiva), senza rompere il partito. Per Iglesias era essenziale che il portavoce parlamentare fosse pienamente in linea con le tesi uscite vincenti dal congresso, quindi che non fosse Errejon.

Iglesias ed Errejon hanno trattato per tutta la settimana. Questa volta Podemos ha fatto le cose molto diversamente dal recente passato: nessuno dei protagonisti si è fatto sfuggire con i media una sola parola sulle trattative in corso. Contrariamente alle abitudini, insomma, niente tweet e niente dichiarazioni alla stampa. Alla fine ha funzionato. Si è trovata una sorta di quadratura del cerchio votata congiuntamente da “pablisti” ed “errejonisti”, su cui si è astenuta la corrente anticapitalista. Il massimo organismo dirigente di Podemos, l’Esecutivo, è ora costituito 15 membri: 11 pablisti, 3 errejonisti e 1 anticapitalista. La carica di segretario politico è stata abolita. Errejon ha perso anche la carica di portavoce parlamentare (che sarà assunta da Irene Montero, vicinissima a Iglesias) e non sarà accontentato nemmeno nella richiesta di avere il 40% dell’Ejecutiva. Apparentemente quindi i vincitori non sono stati molto generosi coi vinti. Ma nonostante questo si è trovato un accordo che soddisfa anche gli errejonisti. Questo perché a Errejon è stato prospettato di diventare il candidato del partito alla presidenza della regione di Madrid nel 2019, oltre che di restare nella Ejecutiva con il nuovo incarico di responsabile di “Analisi e strategica e cambiamento politico”, in un ruolo, a lui molto congeniale, di ragionamento e pianificazione.

È presto per sapere se e quanto questa nuova configurazione reggerà. Per ora sembrano evidenti due cose. Errejon ripete spesso un bel motto: «Paso corto y mirada larga» (passo corto e sguardo lungo). Questo può valere per il partito, ma anche per lui stesso. Per ora (paso corto) accetta l’esito del congresso. Nel medio periodo (mirada larga), si vedrà. In secondo luogo, con gli assetti trovati dopo il congresso, si può ipotizzare che l’orientamento di Iglesias e quello di Errejon abbiano in un certo modo ricominciato a convergere su precisi obiettivi comuni, rispetto a cui i loro diversi orientamenti possono diventare complementari.

Da un lato c’è l’idea di Iglesias che “l’ipotesi populista” – quella di un partito che, chiamandosi fuori dall’establishment, riesce a diventare il punto di convergenza di un insieme di domande sociali insoddisfatte -, non sia ancora chiusa. Dall’altro lato c’è l’orientamento più elettoralistico di Errejon, teso alla seduzione delle “maggioranze silenziose”. La riunione del Consiglio ha individuato due nuovi precisi obiettivi strategici: la vittoria delle elezioni regionali del 2019 e quella delle politiche del 2020. La prima deve essere funzionale alla seconda, da cui l’importanza della candidatura di Errejon a Madrid.

Podemos torna così anche alla sua vocazione originaria, quella di partito costruito attorno alla coppia conquista del consenso-conquista del governo, e su questa base ritrova per ora la sua unità, che nei due giorni di congresso era stata chiesta insistentemente dalla base.