Lo scioglimento del Parlamento catalano e del suo legittimo governo, democraticamente eletto nel 2015, la convocazione d’autorità da parte del governo centrale di nuove elezioni nella regione, il 21 dicembre e la «fuga» del Presidente repubblicano Puigdemont in Belgio, sembrano chiudere il «processo» indipendentista catalano con una netta vittoria del blocco nazionalista spagnolo. Come affermava Santiago Alba Rico, in un amaro ma lungimirante articolo, «la crisi catalana ha chiuso quella finestra di opportunità che le forze del cambiamento non hanno saputo mantenere aperta in Madrid».

Il panorama politico e sociale che emerge dopo la crisi è sicuramente preoccupante anche se la situazione non è completamente stabilizzata. Il ricompattamento del fronte reazionario all’insegna del «patriottismo costituzionale» permette a uno dei partiti di governo più corrotti d’Europa, il Pp, di innalzare la bandiera della «legalità». A questo quadro politico occorre aggiungere la «ferocia» della magistratura che nei confronti dei dirigenti indipendentisti utilizza l’accusa di «ribellione» e «sedizione»: la stessa che fu mossa al colonnello Tejero, per il tentato golpe.

Le vicende di questi giorni potrebbero lasciare sul terreno due vittime politiche: l’indipendentismo di sinistra e Podemos.

Il processo indipendentista catalano nel corso degli anni e nel precipitare degli eventi degli ultimi mesi, è cambiato in maniera significativa. Da un progetto egemonizzato dall’autonomismo della borghesia catalana, si è trasformato in un movimento con fortissime radici popolari grazie alla capacità di mobilitazione di due associazioni: l’Assemblea Nazionale di Catalogna e Omnium culturale. La capacità di mobilitazione nelle frequenti manifestazioni, ma soprattutto in occasione del referendum «illegale» del 1 ottobre, ci parlano di un fenomeno politico con un consenso popolare al quale qualsiasi forza di sinistra dovrebbe guardare con rispetto e con attenzione (evitando quindi le sciocche equiparazioni indipendenza=nazionalismo=razzismo identitario).

Questo processo esce con le ossa rotte dal confronto con l’apparato statale nazionale. L’abbandono da parte della borghesia catalana, con lo spostamento della sede legale di numerose imprese, l’impreparazione rispetto alle reazioni del governo spagnolo, l’isolamento internazionale, dimostrano come l’analisi della Cup, che riteneva la Catalogna l’anello debole dove i rapporti di forza esistenti avrebbero permesso di aprire una vera e propria crisi del regime del ’78, fosse totalmente velleitaria.

L’altra vittima sembra essere Podemos e la sua posizione netta ma difficile da gestire. No all’indipendenza ma sì al diritto a decidere da parte dei catalani, con un referendum legale, nel quadro di una profonda revisione costituzionale che affermi il carattere plurinazionale della Spagna. Questa posizione, nel momento della radicalizzazione del referendum secessionista, è diventata il classico vaso di coccio.

Podemos si trova lacerata da due spinte divergenti. Da un lato la pressione di chi, a fronte della dimensione popolare della mobilitazione indipendentista, spinge per schierarsi a favore della Repubblica Catalana, rifiutando la «terza via» teorizzata dal partito. È il caso di Albano Dante Fachin, segretario di Podem, la «sezione» catalana della formazione viola; oppure quello della corrente degli «anticapitalisti» del partito (minoritaria, fin dalle origini, dentro Podemos) che ha pubblicato un comunicato ufficiale di riconoscimento della Repubblica catalana.

Dall’altro lato le critiche di chi, ad esempio Carolina Bescansa, una delle fondatrici di Podemos, rimprovera il partito di una vuota retorica e di non sapere articolare un discorso e delle proposte concrete rivolte alle masse popolari non catalane.

Il tutto mentre fioccano le accuse di «tradimento della patria» che i partiti politici e la gran parte dei mezzi di comunicazione muovono contro Podemos e le aggressioni fisiche da parte di gruppi di «difensori della patria», che avvengono in diverse città con la sostanziale tolleranza delle forze dell’ordine.

Resta una speranza? Forse sì e si chiama Ada Colau, la sindaca di Barcellona. Colau ha ripetutamente espresso posizioni politiche simili a quelle di Podemos, ma il suo ruolo di sindaca, le iniziative nella città per difendere sia il diritto di esprimersi che le libertà dei funzionari pubblici catalani, hanno dato una dimensione concreta alle posizioni che per Podemos restano invece astratte.

Ada Colau e la possibilità di conservare quegli spazi conquistati dalle «amministrazioni del cambiamento». A questo sembra ridotta la speranza di un futuro diverso in Spagna: non è certo una prospettiva che induca all’ottimismo.

* curatore di Catalogna indipendente – Le ragioni di una battaglia, manifestolibri 2017